A volte uno si crede malato, e non lo è. Succede con i mali della mente, del cuore. Diversa è la malattia volgarmente detta, quella fisica per cui un sintomo, una piccola spia che preannuncia un male più o meno grande, talvolta lieve altre devastante, c’è sempre. E invece no. E così – riformulo – a volte uno si crede sano, e non lo è. È così che ho scoperto di essere positiva al Covid-19. Solo che malata lo ero solo sulla carta.
Da malata ho provato a interrogare più volte il mio corpo, chiedendogli insistentemente di battere un colpo. “Che diamine, hai capito o no che sei malato? Datti da fare”. Sordo a ogni mio richiamo, ho iniziato allora a stuzzicarlo un po’ figurandomi un mal di gola qua, un naso che cola di là, un cerchio alla testa dopo i pasti e sonnolenza sparsa. Ma neanche il potere dell’immaginazione è riuscito a simulare un benché minimo acciacco che si convenga a qualcuno che, come me, si dica malato. Incredula e, a dirla tutta, anche un po’ delusa da questa poca reattività del mio corpo – solitamente così solerte nel farsi sentire persino più del necessario – ho chiesto anche a dottor Google se per caso esistessero sintomi più nascosti, ma che almeno dessero l’idea, un’idea vaga, sì anche un po’ strampalata, ma pur sempre una figurazione reale, tangibile di questa malattia. Ci ho provato, insomma, a togliermi di dosso questa surreale e anche un po’ imbarazzante condizione di essere malata in perfetto stato di salute fino a convenire di trovarmi in una situazione inedita ma, in fondo, curiosa.
Seduta alla scrivania nella mia stanza, che sarebbe diventata di lì a poco la mia prigione, ho iniziato a sbrigare le prime noie burocratiche scontrandomi con la tragicomica realtà di provare a comunicare con un mondo che avvertivo già distante e lontano. Il telefono dello studio medico che suona a vuoto, una serie di messaggini tutti uguali da inviare agli ultimi contatti avuti, i viaggi in time-lapse nella mia testa ripercorrendo le ultime ventiquattro, quarantotto ore. Sola con me stessa e con una domanda, sempre la stessa: “E adesso, che faccio?”.
Squilla il telefono, finalmente. È il medico. Mi chiede i sintomi e io sono pronta a rispondere con l’entusiasmo della prima della classe che sa di essere pronta a stupire: “Nessuno”. Dall’altro lato del telefono avverto una pausa di silenzio. “Asintomatica, quindi”, replica la dottoressa senza che la sua voce tradisca la benché minima sorpresa e aggiungendo, poco dopo, che, visto che stavo bene, potevo lavorare. Così ho capito: non solo non ero così tanto speciale, ma avevo persino ragione io, non potevo essere malata. Non si è mai sentito di un malato, un malato ufficialmente malato che possa lavorare.
Mi sono convinta allora che la malattia, questa malattia, non doveva essere nient’altro che un’idea. Un’idea da riempire. La forma è quella che sappiamo: sette, dieci o più giorni di isolamento dal mondo. Così, ho preso atto della mia nuova condizione esistenziale e sì, anche fisica: una stanza neanche troppo piccola, due finestroni, un gatto, il giardino e, soprattutto, tre coinquiline. Le mie nuove compagne con cui condivido un appartamento da quando, per lavoro, vivo (anche) a Roma.
“Come stai?”, mi scrivono gli amici, i genitori. Io digito sulla tastiera del telefonino “benissimo”, poi cancello. “Bene”, togliendomi dall’imbarazzo di gioire di uno stato che la scienza vorrebbe diverso benché, lo confesso, mi sento pronta per la maratona.
Con il passare dei giorni, mi accorgo che questa condizione surreale di essere malata senza esserlo, di fatto, è materia da teatro. Solo che, a differenza di Argante, il celebre “Malato immaginario” di Moliere, ho persino più attenzioni di quelle di cui ho realmente bisogno. O forse no. E allora inizio a intravedere un senso: la malattia è diventata la cura. Una cura per l’anima, la medicina degli affetti. “Sei una che semina amore”, mi scrive Flavia, una delle mie coinquiline vedendomi ricevere un rigoglioso mazzo di fiori da due amiche che vivono lontano. Chissà se ha ragione, in ogni caso la ringrazio perché è un pensiero a cui non avevo mai dato attenzione.
A ogni pasto arriva alla mia porta un vassoio colorato e pieno di cibo sorprendentemente gustoso e ogni volta diverso. Servirebbe la penna di Manuel Vázquez Montalbán per descrivere certi profumi e quella gioia per il palato capace di svoltare le giornate che regalano certi manicaretti preparati, a turno, da Flavia, Chiara e Lidia, le mie tre coinquiline. Un po’ come l’investigatore gourmet Pepe Carvalho mi piace ricercare in ogni piatto gli indizi della storia personale di ciascuna cuoca: un piatto di ravioli ai carciofi con abbondanza di pecorino non può che essere di Lidia, la romana. Un piatto d’invenzione con rosso d’uovo spennellato su una piadina è opera di Flavia, l’artista. Così come un piatto di gnocchi condito con guanciale, porri, zola e chissà cos’altro non è solo di Chiara, ma è la metafora perfetta della studentessa universitaria fuorisede di origine emiliana, la terra dell’abbondanza.
E così, quelli che dovevano essere i giorni tristi e anonimi di una prigionia forzata si sono trasformati in una settimana da Maria Antonietta. La reclusa vuole il pane, diamole le brioche. Tutto il cibo che in questi ultimi mesi ho dimenticato, tutti i pasti che ho trascurato rincorrendo una vita troppo frenetica su e giù per l’Italia, ora bussano alla porta sotto forma di vassoi coloratissimi. Anche il cibo, in fondo, è una forma d’amore, forse la più primordiale seppure sempre conflittuale.
Al decimo giorno l’isolamento finisce. Il referto è finalmente negativo. E così, alla fine, prendo atto di essere malata. O, meglio, di esserlo stata talvolta negli ultimi tempi. Di una malattia che però, per mesi, non ho visto: per esempio, sono stata malata di solitudine in questa città. Sono stata malata di nostalgia, a volte. Tutte malattie, per fortuna, che, in questa prigionia, ho scoperto essere curabili con pane, amore e fantasia.
Elisabetta