“Rompe una mamma Prof? Sì, molto. Perché tutti i santi giorni che separano dall’esame si cimenta in un funambolico equilibrismo tra la scrivania di casa e la cattedra”.
Elena D’Incerti insegna lettere al liceo classico Beccaria di via Linneo, a Milano e, come ogni anno, è una dei docenti che valuteranno gli studenti alla maturità. Ma questa volta ha affrontato l’Esame di Stato anche nei panni della mamma di un maturando. Ce lo racconta in questo bellissimo scritto in cui ripercorre i momenti fatidici, le tensioni e le emozioni che hanno accompagnato gli ultimi giorni di giugno fino al colloquio del figlio Paolo.
“Sono trascorsi sette anni dall’altra maturità in famiglia; la scuola era in evidente ritardo in fatto di digitalizzazione e la ‘tesina’ (si chiamava così allora ed era soltanto un modo di rompere il ghiaccio all’orale dopo la maratona dei tre scritti) realizzata con Prezi sembrava, oltre che originale, quasi avveniristica con i suoi clic che aprivano collegamenti ipertestuali di immagini e video.
A rivederla oggi, a parte i ricordi che evoca, sembra un prodotto tecnologico artigianale già vintage.
Ma questa è un’altra storia: è la seconda maturità Covid, quella che arriva dopo due anni di Dad, dopo quintali di lezioni e approfondimenti in Power point, dopo una girandola frenetica di videolezioni a distanza e di collegamenti blended.
E così l’elaborato di Paolo, che ha una versione scritta e pure un’editio minor in ppt per l’esposizione, è stato confezionato con apparente nonchalance. Ma, a dire il vero, la scioltezza del lento avvicinamento al maxi orale si brucia quasi subito, a ridosso della consegna: ‘L’hai inviato?’ – ‘No, un attimo’ – ‘Sei sicuro di farcela?’ – ‘Sì, non rompete’: il primo ‘non rompete’ che, nelle sue varie declinazioni, sta per entrare nella top ten delle conversazioni casalinghe del mese di giugno.
Rompe una mamma prof? Sì, molto. Perché tutti i santi giorni che separano dall’esame si cimenta in un funambolico equilibrismo tra la scrivania di casa e la cattedra. Al mattino rincuora i suoi studenti (che problemi hanno, in fondo?), al pomeriggio ondeggia tra l’entusiasmo e le paure irrazionali sull’esito di un esame che pure da anni lei considera costoso, inutile e da abolire con buona pace dei sostenitori del ‘rito di passaggio’.
Così le prime due settimane di giugno sono un crescendo di ansie e di cattivo umore. L’ammissione sembra non essere comunicata mai, il credito non soddisfa, la quantità di programmi da ripassare assomiglia a una monumentale Treccani col suo corredo di aggiornamenti.
‘Dai, in Italiano ti do una mano io’; ‘l’elaborato ripetilo pure a me, a tua sorella, a tuo padre’; ‘non preoccuparti: il calendario del ripasso appeso sopra la scrivania è ben strutturato’.
E invece è tutto un no, giustamente: ‘Non è che se mi dai una mano tu, io imparo anche Dante (ma dimmi la verità, voi prof Dante lo chiedete davvero?)’; ‘l’elaborato me lo cronometro da solo in camera, ci mancherebbe’. Il ruolino di marcia del ripasso in compenso rallenta rispetto all’ottimismo iniziale, complici il caldo, le notizie che trapelano dalle chat tra compagni e pure gli Europei di calcio, che sono un classico anche se lo si scopre solo dopo, quando queste serate entrano nel file dei ricordi di gioventù.
La mattina clou è quella di lunedì 14, quando si consuma l’attesa del calendario colloqui. Io sono a scuola impegnata nella mia plenaria; Paolo a casa ripassa con un amico e intanto messaggia implacabile: ‘A che ora escono?’ (‘Alla fine della riunione plenaria; lascia che i prof conoscano il presidente’); ‘Ti pare normale che non si sappia ancora niente?’ (‘Sì, mi pare normale’); ‘Me lo sento, sarò il primo del primo giorno e addio ripasso’ (‘Può essere, ma non è detto che sia un male… ‘, a questo punto, tra l’altro sarebbe una benedizione impartita alla famiglia tutta).
All’ora di pranzo WhatsApp diventa incandescente: Paolo, suo papà, pure le mamme della classe leggono il calendario da non so dove e lo inviano compulsivi in simultanea.
Saremo (ormai il plurale è d’obbligo) venerdì 18. Mi preparo: ci aspettano tre giorni di fuoco in cui verrà sviscerata per mappe concettuali la storia del genere umano in tre lingue diverse. Decido che ascolterò paziente parallelismi arditi tra la Rerum Novarum e il giovane Partito Socialista di Filippo Turati; che sfodererò compiacimento sentendo parlare di onde radio (è dai tempi della mia maturità che non so come maneggiare la materia) e dell’Eiar fascista, che annuirò se il pastore errante di Leopardi e gli astronauti dell’Apollo 11 si daranno amabilmente la mano. Ma soprattutto, visto che i miei colloqui inizieranno la settimana prossima, mi dedicherò alla cucina sana perché all’appuntamento fatidico si arriva in forma. Più o meno.
Giovedì 17. Si parte con la superstizione. L’Italia ieri sera ha vinto: coraggio, è di buon auspicio: lo sguardo però è perplesso.
E’ la giornata dei dubbi dell’ultimo momento, del disfattismo da manuale (‘Non so niente, è inutile’), dell’ultima occhiata all’educazione civica (‘Stanno scrivendo tutti che è il pallino della presidente’ – ‘Ma certo, Paolo, ognuno ha i suoi: è normale’).
Ascolto per la dodicesima volta l’elaborato sulla propaganda dai totalitarismi alle fake news, La pioggia nel pineto e il Manifesto del Futurismo, ma quando lui arriva allo ‘schiaffo e il pugno’ io rovescio maldestra mezza bottiglia d’acqua sull’antologia: decido così che oggi sposterò il focus sulle questioni di sostanza del tipo: ‘Come ti vesti domani?’. Per il resto solo training motivazionale fino a sera.
Venerdì: ci siamo. La notte prima degli esami è trascorsa tra messaggi di incoraggiamento (servono, eccome se servono!) e manuali sottolineati. È mattina presto quando noto con stupore la matassa di mappe e appunti ricomposta in un quadernone magico che Paolo dice di voler sfogliare a scuola in attesa del suo turno. Camicia bianca stirata, Filippo l’amico di sempre ad accompagnarlo (‘Non vorrete mica fare voi da testimoni?’) e lui finalmente varca la soglia di casa.
Gli ripeto che un esame come quello di quest’anno dovrebbe integrare esperienze di studio a partire dall’elaborato e non dovrebbe lasciare fuori dal colloquio neppure il Covid che ci ha travolto. Lui rimane scettico e dice solo: ‘Vediamo’.
Sarà che Paolo è il piccolo di casa, sarà che la sua carriera scolastica è quella di un ragazzo un po’ ribelle, fatto sta che non abbiamo resistito: pure a debita e rigorosa distanza dall’aula io e suo padre lo aspettiamo fuori. Il tempo non passa mai (‘Non gli verrà mica in mente di fare le domandine di una volta invece che un colloquio multidisciplinare?’), la mamma della candidata a seguire chiacchiera senza sosta, e intanto i panni razionali della prof che a giorni alterni alberga in me rimangono religiosamente piegati nel cassetto fino a martedì prossimo.
Infine, quando ogni speranza sembrava persa, Paolo esce con il sorriso di chi ha finito soddisfatto: Marinetti per la prova di Italiano (Evvai!), Mary Shelley per il colloquio e in mano un foglio su cui ha disegnato l’ultima mappa concettuale, quella più importante: intravedo che è fitta di frecce che deve aver tracciato per muoversi tra le lingue straniere, l’arte, la storia, la filosofia e pure la temuta educazione civica.
Ma la fatica è già alle spalle: gli amici che lo aspettano fuori fanno una ola discreta da era post-Covid e lo portano al bar. È il suo nuovo inizio”.