Milano è stata colpita duramente dalle pandemie più volte nella sua storia, ben prima del coronavirus. Ne portano la memoria diversi luoghi, tradizioni e leggende meneghine.
Come quella legata al Carnevale ambrosiano. Pare che, nel IV secolo, Milano uscisse da una pandemia di peste alle soglie della Quaresima – che avrebbe previsto ulteriore digiuno dopo un già lungo periodo di fame – . Così il vescovo Ambrogio ottenne dal Papa una concessione: festeggiare il Carnevale fino al sabato precedente alla Quaresima, e solo nel territorio di Milano.
La città fu messa a dura prova anche nel XIV secolo. Ci fu una pandemia di peste nera, che arrivava dall’Asia e si diffuse poi in Europa. Il bilancio di Milano non fu però particolarmente negativo comparato con altre province italiane. Sembra che i Visconti ordinarono un lockdown più alla Xi Jinping che alla Giuseppe Conte, chiudendo in casa i sospetti malati e sprangando le loro porte. Limitò anche la circolazione delle merci, razionando così anche le scorte alimentari.
Un altro luogo iconico è San Bernardino alle ossa, in piazza Santo Stefano, che ci parla di un’altra epidemia. Una delle leggende vuole che le ossa e i teschi con cui sono ricoperte tutte le superfici siano quelle della peste del Seicento. Quella manzoniana, per intenderci.
E poi ci sono i resti del Lazzaretto, descritto da Alessandro Manzoni. Un luogo che riporta all’idea di confinamento e intrecciato con la storia e la letteratura della città. Ce ne parla Fedra Pavesi, guida turistica di Milano.
Una storia di manzoniana memoria
“La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar con le bande alemanne nel milanese, c’era entrata davvero, come è noto; ed è noto parimente che non si fermò qui, ma invase e spopolò una buona parte d’Italia”. Così si apre il trentunesimo capitolo de “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni. Racconta la peste con l’arrivo dei Lanzichenecchi. Ma, come abbiamo accennato, non fu certo questo il primo episodio a colpire la città. Facciamo allora un passo indietro ed entriamo nella Milano medioevale e poi rinascimentale.
“Città ricca e laboriosa al centro d’Europa, tanto da guadagnarsi il nome di Midland, ‘città nel mezzo’, in lingua germanica. Fu al centro dei commerci per diversi secoli. Durante il Medioevo, quando molte città attraversavano periodi bui, Milano si distinse nella manifattura di oggetti in metallo. In particolare, nelle stupende armature, che i principi europei acquistavano dai lombardi. In ogni collezione o wunderkammer principesca ci sono i manufatti lombardi: broccati lussuosi, tessuti realizzati con fili intrecciati di oro ed argento”, spiega Pavesi.
“Nel 1576 scoppiò un’epidemia di peste che mise in ginocchio la città per due anni”, racconta. “La Milano contesa da tutti i regni europei divenne una realtà da evitare, da cui fuggire, da isolare”. E, in questo contesto, si trovò un luogo dove confinare tutti i malati. “All’interno del recinto costruito dagli Sforza durante il secolo precedente”: il Lazzaretto.
Si trovava appena fuori dalla cinta muraria, ai margini di quella che un tempo era la Porta Orientale, “tra le attuali via San Gregorio, corso Buenos Aires, viale Vittorio Veneto e via Lazzaretto”.
Consisteva in “un vasto recinto quadrato, chiuso verso l’esterno, e circondato da un fossato, a garanzia del totale isolamento”. Mentre all’interno, spiega Pavesi, “fu costruito un porticato lungo tutti e quattro i lati che distribuiva 288 celle, o stanzette, complete di arredo fisso e camino mentre le altre otto – quattro agli angoli e quattro ai due ingressi – erano destinate ai servizi”. L’architettura “divenne in seguito il modello per tutti i lazzaretti costruiti successivamente in altre città”.
Non si trattava certo di un vero ospedale. Ai malati di peste “venivano forniti beni di sussistenza”, ma “era soprattutto alle loro anime che l’arcivescovo Carlo Borromeo volgeva la sua attenzione”. Fece erigere dal suo architetto di fiducia, Pellegrino Tibaldi, la chiesa di San Carlo al Lazzaretto. “L’edificio, a pianta ottagonale, era al centro del quadrilatero e fu concepito proprio come evoluzione dell’altare coperto, terminante ai lati con serliane (elemento architettonico composto da un arco a tutto sesto affiancato simmetricamente da due aperture sormontate da un architrave, ndr) aperte, dalle quali ogni ‘abitante’ del recinto poteva udire le preghiere”. L’edificio, modificato nell’Ottocento murando i varchi, è visibile ancora oggi.
“E, proprio come nei migliori romanzi gotici, il binomio Borromeo-peste si ripropose trent’anni dopo con il cugino di Carlo, Federico Borromeo, testimone di quella che fu la peste manzoniana del 1630”, spiega Pavesi.
Nelle pagine del trentacinquesimo capitolo de “I promessi sposi”, lo scrittore milanese rende immortale nella storia della letteratura la memoria di quell’edificio per isolare i malati. “S’immagini il lettore il recinto del lazzeretto, popolato di sedici mila appestati; quello spazio tutt’ingombro, dove di capanne e di baracche, dove di carri, dove di gente; quelle due interminate fughe di portici, a destra e a sinistra, piene, gremite di languenti o di cadaveri confusi, sopra sacconi, o sulla paglia; […] e qua e là, un andare e venire, un fermarsi, un correre, un chinarsi, un alzarsi, di convalescenti, di frenetici, di serventi”.
Un luogo che ricordava una fortezza, con tanto di fossato, dove venivano internati migliaia di malati o sospetti tali, isolandoli dalla città dei sani.
E se Manzoni lo racconta così lucidamente, in realtà, “con l’estinguersi delle epidemie, gli spazi del Lazzaretto vennero utilizzati per scopi militari, divennero abitazioni private, fino al 1861, quando un viadotto ferroviario lo tagliò in due”, spiega Pavesi. “Oramai le necessità di Milano erano cambiate e il piano regolatore dell’ingegnere Cesare Beruto ridisegnava la città fuori dalle mura spagnole”. Così il Lazzaretto venne demolito tra il 1882 e il 1890. “Era necessario far spazio al quartiere sorto alle spalle di quella strada costruita spianando i bastioni, che da fortezza difensiva, divennero luogo degli incontri domenicali della borghesia, dove le carrozze si muovevano lente permettendo ai milanesi di ammirare il Resegone”.
E ora, cosa rimane di tutto questo nella città attuale? “Il visitatore curioso può addentrarsi in via San Gregorio 5 e scorgere le poche arcate superstiti nell’edificio concesso alla chiesa ortodossa. Oppure guardare all’interno del cortile di Palazzo Luraschi, in corso Buenos Aires 1, costruito sulle macerie del distrutto lazzaretto, dove i busti dei protagonisti dei Promessi Sposi ci osservano dall’alto”. Mentre altre porzioni del Lazzaretto sono state portate in ville private, tombe e case in altre province della Lombardia.