In questi giorni erano previsti gli esami di stato per l’abilitazione alla professione di avvocato. Ma sono stati cancellati a causa della pandemia. E non è stata ancora scelta una data o delle modalità per recuperarli, come invece è avvenuto per altre professioni. Decine di migliaia di praticanti, che hanno una sola possibilità all’anno per sostenere le prove, sono ora bloccati in una sorta di limbo, fino a data da definirsi. Una situazione intollerabile e contro cui hanno deciso di scendere in piazza. Lo stanno facendo simbolicamente proprio in questi giorni in cui avrebbero dovuto svolgere gli esami, in tutta Italia.
Chiedono che venga fissata una data per l’esame al più presto per avere così la possibilità di essere abilitati ad esercitare la professione che hanno scelto. Oggi è il turno di Milano. Una delegazione che li rappresenta si è data appuntamento fuori dal Palazzo di Giustizia.
Abbiamo chiesto a un membro del Comitato per l’esame d’avvocato di raccontarci qual è la condizione di questo esercito di aspiranti “azzeccagarbugli”, per citare Alessandro Manzoni. Si chiama Federico Pappalettera, ha 27 anni ed è di Legnano, in provincia di Milano.
Lei perché ha scelto di diventare avvocato?
“Sette anni fa mi iscrissi a Giurisprudenza, un po’ per caso, sulla scia dei racconti di un amico di famiglia che lavorava nell’ufficio legale di una grande società petrolifera. Aveva girato il mondo per anni scrivendo contratti, facendo un lavoro interessante e visitando luoghi esotici. All’epoca sapevo molto poco di Diritto, ma mi appassionai in fretta. L’amore per la materia fece nascere in me anche un certo idealismo sulla tutela dei diritti delle persone, che poi è il motivo per cui oggi sono qui a parlare di noi, praticanti avvocati”.
Da praticante ad avvocato, come si vive questo passaggio?
“Faccio una premessa: io sono un ‘privilegiato’. Lavoro per un grande studio internazionale. Ho un compenso commisurato al mio lavoro, oltre a una serie di benefit, come, per esempio, il rimborso di alcune spese che, invece, quasi tutti i colleghi sostengono di tasca loro. E ho la possibilità di avere periodi di riposo e di assenza per la preparazione dell’esame pagati dall’ufficio”.
A parte i pochi fortunati come lei, com’è la situazione dei praticanti avvocati in Italia?
“Nella maggior parte dei casi i praticanti devono far fronte a diversi ostacoli, sia dal punto di vista economico che lavorativo. Partiamo dal primo. Il compenso, a Milano, si aggira tra i 300 e i 500 euro al mese, mentre nel resto d’Italia spesso non è previsto alcun pagamento né rimborsi spesa. Questa retribuzione così bassa o nulla viene giustificata dal fatto che il vero compenso sarebbe l’insegnamento che si riceve durante il periodo di pratica forense”.
Ma è davvero così?
“Spesso ci si trova a svolgere esclusivamente mansioni di segreteria o pratiche meccaniche, senza la possibilità di partecipare ai lavori più complessi e dunque formativi. Tutto questo porta i giovani professionisti a vivere in uno stato di frustrazione: sanno che per lungo tempo dovranno pesare sulle spalle dei genitori e in più sentono che non stanno acquisendo molte delle competenze che saranno necessarie per il loro futuro lavorativo. Molti alti rappresentanti delle istituzioni forensi sono consapevoli di questa situazione e purtroppo una parte ne è, più o meno apertamente, promotrice e sostenitrice”.
Oggi scendete in piazza a Milano e a Roma, nei giorni scorsi eravate a Napoli, Palermo, Bologna, Torino.
“Le date sono simboliche: dal 15 al 17 dicembre avremmo dovuto sostenere l’esame che dà il via alla costruzione del nostro futuro professionale. Ma il nostro futuro è stato cancellato e non sappiamo ancora per quanto. Abbiamo il diritto di abilitarci nei tempi previsti così come avviene per gli altri professionisti in Italia”.
Il ministro Alfonso Bonafede ha deciso di rinviare l’esame di abilitazione professionale senza proporre una nuova data.
“A differenza di quanto fatto dai dicasteri dell’Istruzione e del Lavoro per altre professioni, il ministro della Giustizia ha ritenuto che le prove scritte dell’esame da avvocato fossero un dogma intoccabile. Per evitare un’ipotetica semplificazione dell’esame, ha creato però una plateale discriminazione tra le generazioni: oggi non si è più avvocati per le proprie capacità, ma per il proprio anno di nascita. A farne le spese però sono i cittadini: la tutela dei loro diritti è una priorità e dev’essere affidata a professionisti selezionati su base meritocratica e non generazionale”.
Cosa chiedete?
“Riteniamo che il governo abbia giocato d’azzardo con il futuro professionale degli avvocati di domani, scommettendo che la pandemia sarebbe passata, salvo poi perdere la scommessa. Per questo chiediamo anche per i praticanti avvocato modalità d’esame che garantiscano la conclusione della sessione d’esame entro l’inizio del 2021”.
Avete cercato un dialogo con le istituzioni?
“Da diversi mesi cerchiamo un confronto con i rappresentanti delle istituzioni, governative e forensi. La nostra richiesta è sempre stata questa: non chiediamo alcun favoritismo o privilegio, vogliamo solo sostenere – con le modalità più idonee tenuta conto la situazione pandemica – l’esame per l’abilitazione alla professione forense 2020, in modo da riceverne i risultati prima che inizi la sessione del 2021. È una richiesta che, con riferimento a qualsiasi altro esame di Stato o concorso pubblico, sarebbe ovvia. Ma oggi ci troviamo nella condizione di chiedere che ci siano garantiti persino i diritti che per tutti sono banali”.
Ventimila avvocati praticanti pronti a fare sentire la propria voce: parteciperanno tutti alla protesta?
“Sarò molto franco: in piazza non ci saranno grandi numeri. Per due motivi: il primo è il senso di responsabilità che, in relazione all’attuale situazione di emergenza, ci ha spinto a organizzare eventi più contenuti in giorni simbolici. Il secondo è di ordine pratico: noi praticanti siamo giuridicamente liberi professionisti, ma di fatto lavoratori para-subordinati senza alcuna tutela, in quanto non abbiamo diritto a permessi o assenze dal lavoro, ferie retribuite e così via. Molti di noi parteciperanno al sit-in in pausa pranzo. Saremo tanti, distribuiti sull’intera giornata, ma non ci aspettiamo folle oceaniche”.
Quanti sono gli avvocati praticati in Italia?
“A fine 2019 gli idonei allo svolgimento dell’esame erano 24.087 e i presenti agli scritti erano 22 mila. È un numero molto elevato, che, del resto, rispecchia la grande quantità di avvocati in Italia rispetto al resto d’Europa. Per dare un’idea, la Francia ha cento avvocati ogni 100 mila abitanti, l’Italia ne ha 388. Ma le proporzioni variano molto da città a città: le regioni italiane con più avvocati in valore assoluto sono Lombardia e Lazio, che contano ciascuna più di 33 mila professionisti”.
Chi sono i praticanti italiani?
“L’età media di abilitazione è di 29-30 anni. Le donne rappresentano il 48 per cento del totale (nel 2017). Tutti questi dati, quando riferiti ai soli avvocati iscritti, dovrebbero – in proporzione – riflettersi anche sui praticanti avvocato. Molto difficile, invece, ricostruire quanti candidati sostengano l’esame per poi iscriversi all’albo e quanti invece lo facciano per poi accedere a concorsi pubblici di secondo livello (che richiedono un titolo ulteriore alla laurea, per esempio Magistratura) o, comunque, non si iscrivano a nessun Ordine, per proseguire, per esempio, la carriera accademica o aziendale”.
Facciamo un passo indietro. Dopo la laurea in Giurisprudenza, che succede?
“L’esame di abilitazione alla professione può essere svolto solamente dopo 18 mesi di praticantato. Si tratta di un tirocinio post-laurea da svolgere presso un avvocato con almeno cinque anni di esperienza, che nella maggioranza dei casi non è né retribuito né contrattualizzato”.
Poi c’è l’esame di Stato. Come funziona?
“A Milano si svolge in un padiglione della fiera cittadina, dove circa tremila candidati si riversano per tentare le prove. Il numero di bagni rispetto alla quantità dei partecipanti è irrisorio e le code per accedere ai servizi durano spesso mezz’ora. Queste le condizioni in cui si svolge l’esame, ma in altre parti d’Italia è anche peggio. In media, solo il 30 per cento degli iscritti lo supera, con notevoli oscillazioni territoriali. A tentarlo sono più di 20 mila candidati all’anno. Si svolge a dicembre e consiste in tre prove consecutive su materie disparate della durata di dieci ore ciascuna”.
Ci racconti
“Le tre prove consistono in un parere di diritto civile, uno di diritto penale e nella redazione di un atto processuale. La maggior parte dei candidati frequenta, nei mesi precedenti all’esame, un corso di preparazione che costa più di mille euro. Da qualche anno, per evitare eccessive disparità nei tassi di superamento dell’esame, i compiti vengono trasportati in giro per l’Italia per far sì che vengano corretti in una corte d’appello diversa da quella dove sono stati svolti. Una procedura che dura in media sette mesi, salvo ritardi”.
E poi c’è l’orale
“Per i candidati che passano la parte scritta, c’è la prova orale. In periodi ordinari, il calendario inizia settembre e può durare fino al nuovo anno. Tanto che è prassi sostenere l’esame scritto della sessione successiva per tutelarsi da eventuali bocciature all’orale. Perché chi viene bocciato all’orale deve ripartire da capo, sostenendo nuovamente lo scritto, anche senza essere mai stato bocciato in questa prova. Chi passa anche la parte orale dell’esame, è abilitato all’esercizio della professione forense”.
Riassumendo, quanto dura questo percorso?
“In linea teorica, stimando un percorso di laurea quinquennale nei tempi, si può diventare avvocati all’età di 27 anni. Nella realtà, però, si arriva a questo traguardo intorno ai trent’anni e oltre. Per quanto riguarda la situazione attuale, gli effetti dei rinvii dovuti alla gestione dell’emergenza pandemica sono ancora tutti da quantificare: ad oggi abbiamo accumulato un ritardo di almeno 5 o 6 mesi”.
Al di là dei ritardi dell’esame di abilitazione, com’è cambiato il lavoro dei praticanti avvocati durante la pandemia?
“A seconda del settore, alcuni di noi hanno visto persino aumentare il carico di lavoro. Altri colleghi hanno lavorato meno, ma sono stati egualmente pagati. Purtroppo ad alcuni, invece, sono stati ridotti i compensi senza preavviso o, addirittura, sono stati lasciati a casa. Sicuramente la non già facile situazione di chi cerca lavoro si è ulteriormente aggravata: difficile cercarlo da remoto, in un settore che già soffre di cronica crisi da sovrabbondanza di offerta. E comunque, una volta trovato, è difficile iniziare in smart working”.
Ci faccia degli esempi
“Molti colleghi mi hanno segnalato nuovi problemi generati dalla situazione che stiamo vivendo. Alle udienze telematiche, per esempio, il giudice spesso chiede che avvocato e praticante siano nella stessa stanza, cosa ovviamente impossibile in smart working e priva di buon senso durante una pandemia. Alle udienze fisiche, invece, il giudice vieta al praticante di entrare in aula, non essendo un soggetto essenziale allo svolgimento del processo. In contraddizione con quanto vorrebbe l’Ordine, che richiede di assistere, ai fini della pratica, a tre o quattro udienze al mese. Ora però pare che, su questo punto, abbiano finalmente trovato un accordo”.
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