“Questo 2020 così cupo e complicato mi ha insegnato molte cose. La più importante è che, in fondo, non importa dove si sia confinati, con chi e per quanto tempo. Ciò che conta davvero è la capacità di stare bene con se stessi, trovare i propri spazi e i modi giusti per esprimere chi si è davvero. In breve, bastarsi e amarsi”.
Selene Gagliardi, giornalista e scrittrice di 31 anni, che ci manda questa lettera, è una dei tanti italiani che nei mesi più difficili della pandemia è rimasta confinata a Londra, la città dove si era trasferita nel 2018 in cerca di lavoro e fortuna. Solo a giugno, quando le frontiere si sono riaperte, è riuscita a tornare in Italia. Ma il ricordo di quei lunghi mesi lontano da casa e trascorsi insieme ad altri sette coinquilini da tutto il mondo, è ancora vivo. Da questa esperienza, a tratti spiazzante, ci confessa di avere imparato tanto. Ora è una di quei fortunati “nomadi digitali” che possono lavorare ovunque da remoto. In questa lettera ci racconta come ha vissuto questo, a suo modo indimenticabile, 2020 in un’altalena di sentimenti contrastanti e nuove scoperte.
Ci scrive Selene:
“La solita vista ogni volta che si butta lo sguardo fuori dalla finestra, gli stessi mobili a delineare lo spazio in cui si trascorreranno le prossime 24 ore, le identiche (poche) facce – quelle della nostra famiglia o dei nostri coinquilini – dalle quali si potrà tentare di rubare un sorriso che scalda il cuore, per non cedere alla morsa dell’ansia. Parliamoci chiaro: chi, durante il lockdown inaugurato a marzo, non si è sentito anche per un solo momento in gabbia, invece di godersi il tepore della propria casa? Eppure, c’è stato anche chi, come me, il confinamento imposto dalle autorità in quei mesi non l’ha potuto vivere annoiandosi tra le solite quattro mura domestiche, ma ha dovuto abituarsi a una quotidianità completamente diversa restando a quasi 1500 chilometri dai propri affetti.
Tanto grande, infatti, è la distanza che separava la metropoli nella quale mi trovavo al momento – ovvero Londra – dalla mia città natale, dove tuttora risiede la mia famiglia e gran parte dei miei amici storici: Roma. Mai avrei pensato che, da un giorno all’altro, mi sarebbe stata tolta la possibilità di salire sul primo aereo disponibile e atterrare da sopra il cielo della capitale per tornare a giocare un po’ con il mio cane, o portare il mio fratellino a scuola.
Eppure, devo fare una confessione. Nell’aprire questa lettera, ho fatto un piccolo bluff: è vero che ho trascorso il periodo del lockdown lontano dalla casa di origine, ma questo non vuol dire che un tetto sotto al quale rimanere al sicuro nei mesi iniziali della pandemia io non ce l’abbia avuto. Anche io, come probabilmente chi mi legge, sono scivolata nella monotonia di passare l’intera giornata – poi trasformatasi in settimane e infine in mesi – tra le solite mura, dimenticando nell’armadio ogni vestito che non fosse il pigiama e confrontandomi unicamente con le altre sette persone che vivevano con me (sì, lo so, si trattava di un appartamento decisamente affollato!).
Solo che l’improvviso divieto di varcare le frontiere del Belpaese mi ha lasciato spiazzata. Non soltanto ha amplificato l’eco del richiamo viscerale della mia terra d’origine, ma mi ha fatto sentire impotente: incapace di poter aiutare la mia famiglia nel momento di più grande bisogno, esclusa da quel sentimento di unità nazionale che il canto al balcone delle 18 ha rinsaldato. Ho provato quasi una sensazione di esilio, tuttavia molto meno poetica di quella cantata ed esorcizzata dai letterati di ogni epoca e latitudine.
Ed è a questo punto, però, che devo ancora una volta mostrare le mie carte al completo, smascherare cioè il mio secondo bluff. Non immaginatemi triste e sconsolata mentre guardo il cielo al chiaro di luna, rievocando le strade e il vocio di Roma. A essere del tutto onesta, l’essere confinata con altri sette miei coetanei è stato quasi ‘piacevole’. Ho avuto modo di conoscere molto meglio quegli estranei che avevano preso in affitto le altre stanze della mia abitazione, di organizzare serate di chiacchiere e canzoni, di cucinare la parmigiana per chi in Italia non era mai stato e, a mia volta, di assaggiare sapori tipici di terre che per me rimangono ancora solo un punto sulla mappa geografica.
Insomma: quasi come accade nel Decameron boccaccesco, mi sono nutrita delle storie – vere o inventate che fossero – di chi si è ritrovato ingabbiato per mesi nello stesso spazio, per proteggersi da una pandemia inaspettata. Probabilmente, la più grande differenza tra noi e i ragazzi del capolavoro toscano è stata la massiccia dose di junk food consumato davanti agli episodi de ‘La casa di carta’ (conditi perlopiù da qualche birra di dubbia provenienza).
Non solo: i quattro mesi passati nella periferia a est di Londra mi hanno aiutato a ritrovare il piacere del contatto con la natura. Seguendo le normative imposte dal governo britannico per fronteggiare l’emergenza Covid, ho potuto passare un’ora al giorno all’aria aperta, correndo o passeggiando per i tanti parchi del mio quartiere. E scoprendo gli angoli a me meno conosciuti della metropoli, ho anche imparato il piacere di stare da soli con se stessi, di essere in armonia con il mondo e col proprio corpo, di apprezzare la bellezza che ci circonda ogni giorno, senza che noi ce ne accorgiamo.
Poi, a inizio giugno, le frontiere del Vecchio Continente si sono finalmente riaperte. Io ho potuto tornare a passeggiare col mio amato cane per le vie della città eterna e godermi l’arte culinaria di mia nonna. Risultato: +5 chili in tre mesi… E a Londra, per il momento, non ho più messo piede. Lo ammetto, infatti: sono tra i fortunati ‘nomadi digitali’, quelli a cui basta un computer e una connessione internet per svolgere il 100 per cento del loro lavoro. Per questo, ora che l’Italia e l’Europa sono ripiombate nell’incubo delle restrizioni e, in alcuni casi, di un nuovo lockdown, io sono potuta rimanere accoccolata nella magica atmosfera di Roma.
Long story short, come dicono i miei amici inglesi, questo 2020 così cupo e complicato mi ha insegnato molte cose. Ad esempio, quanto siano forti i legami con le proprie origini, pure per chi si considera una cittadina del mondo e ama conoscere le altrui culture; quanto sia bello sentirsi parte di una comunità (specie se coesa), a qualsiasi livello; quanto siano fondamentali per me – così come per chiunque, suppongo – le relazioni sociali. Ma forse l’insegnamento più prezioso è stato un altro, nato proprio da quelle scarpinate londinesi che un po’ rimpiango: che, in fondo, non importa dove si sia confinati, con chi e per quanto tempo. Ciò che conta davvero è la capacità di stare bene con se stessi, trovare i propri spazi e i modi giusti per esprimere chi si è davvero. In breve, bastarsi e amarsi. E questo a qualsiasi longitudine, periodo della vita e condizione. Ecco cosa ricorderò di positivo quando ripenserò al 2020″.
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