“Prima o poi la tempesta finirà e allora sarà ancora più bello godersi una tazza di thè al caldo, tutti insieme”. Un appello a resistere, in attesa di tempi migliori. È la voce, un po’ fuori dal coro, di un giovane ristoratore, che dietro al bancone ci sta da quando aveva 16 anni quando passava i pomeriggi dopo la scuola ad aiutare il padre tra i fumi di spiedi rotanti, salse e patatine.
Emrah Karaman oggi ha 29 anni e tante idee per la testa. Tutto è iniziato quando ha rilevato il locale di famiglia e l’ha trasformato in un luogo originale dove, tra una tavola da surf e foto d’autore appese alle pareti, “il kebab incontra la miscelazione, le birre d’importazione, i distillati, la buona musica e la cordialità”. In una parola, anche questa di sua invenzione: “kebabbar”. Un bar con qualcosa in più. Per esteso: Star Zagros Kebabbar. Qui s’incontrano venti, trentenni, ma anche famiglie e coppie al loro primo appuntamento e si gustano coloratissimi piatti mediorientali accompagnati da cocktail ideati da Emrah.
Da quando è scoppiata l’emergenza del coronavirus, Emrah prova a guardare il bicchiere mezzo pieno. “Concentriamoci sulle nostre passioni, cerchiamo di utilizzare il tempo per costruire, migliorare e rendere più efficiente il nostro servizio: è il momento di saldare ancora di più il rapporto con i nostri clienti. Insomma, non demoralizziamoci”. Più che un messaggio, il suo è un grido di speranza, anche se lo pronuncia piano, con quel tono di voce affabile e gentile che chi frequenta il suo locale in corso Ventidue Marzo, a Milano, ha imparato a conoscere almeno quanto il suo menu, essenziale e accogliente.
I ristoratori come Emrah, che spesso portano avanti il locale da generazioni, stanno pagando uno dei prezzi più alti in questa seconda ondata di contagi. E non sono pochi, se si pensa che la Lombardia è la regione italiana con il maggiore numero di locali per il consumo di cibo e bevande fuori casa. Secondo una stima della Coldiretti, la chiusura per un intero mese degli oltre 51 mila ristoranti, bar e pizzerie in Lombardia genera una perdita di fatturato di almeno un miliardo di euro. Ma oltre ai numeri, ci sono le storie: sono storie di famiglie, di sacrifici, di tenacia e di speranza. Come quella di Emrah e del suo kebabbar.
La storia di Emrah viene da lontano. Nato in un una località remota del Kurdistan, ufficialmente Turchia, e cresciuto a Sesto San Giovanni, in provincia di Milano dove il papà già lavorava, in Italia è arrivato da ragazzo, insieme alla mamma e al fratello. Una volta ricongiunta la famiglia, ben presto il padre si accorge che i turni in fabbrica non sarebbero bastati a mantenere tutti. Da qui l’idea di aprire un locale: un kebab. Emrah non aveva ancora compiuto 16 anni quando la sua vita di adolescente si divide tra la scuola, gli amici e il locale.
Da allora, non ha mai smesso di stare dietro al bancone. Sempre con il sorriso. “Per arrivare a realizzare la mia idea di locale ci sono voluti nove anni. Ma ancora non è finita, siamo in continuo movimento”.
Le pareti color ottanio, una tavola da surf e qualche foto d’autore esposta in fondo alla sala fanno sognare mondi lontani. La statuetta di un umarell che guarda i lavori in corso dentro al locale ci riportano, invece, a Milano e alle seconde radici di questo piccolo spazio. Curato, ma non snob. Un posto accogliente frequentato da persone tra i 25 e i 40 anni. Ma non è insolito vedere ragazzini prendere un panino con gli amici davanti a una Coca-Cola o qualche coppia matura davanti a un drink.
Il filo che unisce tutto – il presente con il passato, culture diverse che s’incontrano, una clientela variegata e sempre nuova – è il nome: Star Zagros Kebabbar. Ma che significa? Zagros, spiega, “è la catena montuosa che si estende dall’Anatolia fino al Golfo Persico e dove, secondo la mitologia, è nato il popolo curdo”. Si chiamava così, “Star Zagros”, il primo locale di famiglia, aperto nel 2006. “Kebbabar” è arrivato poi ed è un neologismo inventato da Emrah e di cui va molto fiero. Simboleggia l’unione di kebab e bar e rappresenta l’essenza stessa del locale: “Un locale che unisce le mie due identità, quella curda e quella italiana, attraverso il menu che offriamo: i kebab rappresentano le nostre radici curde mentre i cocktail la nostra quotidianità italiana. Ed è soprattutto una rappresentazione di quello che siamo noi: ragazzi nati in un contesto e cresciuti in un altro e che probabilmente sfugge alle classiche logiche”.
Pensare fuori dagli schemi. Questo è anche l’imperativo che si è posto in questi mesi per sopravvivere e reinventarsi fin da marzo, quando con l’emergenza sanitaria in atto si è visto costretto ad abbassare la saracinesca. Ma non a fermarsi. Insieme ad altri ristoratori, ha aderito all’appello dei colleghi di Slow Sud per portare da mangiare a medici, infermieri e personale sanitario impegnato negli ospedali. “Erano stremati”, ricorda. Un gesto gratuito: “In quel momento ci siamo sentiti utili. È stata una bella esperienza di solidarietà civile”.
Nei mesi più bui, la catena di aiuti si è moltiplicata e anche i clienti hanno fatto la loro parte. “Massimo Fiorio, in arte Dietnam (bassista, scrittore e autore di facts virali su Chuck Norris, ndr), per esempio, ha diffuso l’iniziativa sui social. Così sono arrivate decine di contributi, lì definirei così, nei nostri confronti”, ricorda Emrah. “Il kebab sospeso, per esempio, è stato un gesto che ho apprezzato molto perché dà l’idea di quanto ci tenga al locale, e come lui molti altri, che forse non abbiamo mai ringraziato pubblicamente. In quei giorni mi sono reso conto di quanto le persone che frequentano il kebabbar abbiano un valore umano notevole”.
Piccoli gesti di vicinanza, ma di grande impatto. E poi c’è la creatività di Emrah, che nei momenti di crisi dà il meglio. In lockdown, per esempio, ha portato il bancone a casa dei suoi clienti attraverso le dirette su Instagram. Un modo per ricreare l’atmosfera del locale insieme alle persone che lo frequentano. “Chiunque poteva collegarsi e fare due chiacchere con me. Nel frattempo i miei collaboratori prendevano le comande e consegnavano i drink a domicilio”. Un esperimento, quello del bar virtuale, che però è durato poco. “Nella comunità dei ristoratori è nato un dibattito tra chi sosteneva non ci fosse nessun problema e chi, invece, pensava che non si potesse fare. Dall’agenzia delle dogane non sono arrivate risposte ufficiali. Così, nel dubbio, abbiamo sospeso le dirette. Ora le norme sul delivery di drink sono state aggiornate e a breve vogliamo riprendere questo tipo di esperienza”.
Poi, a giugno, il lockdown finisce. “Ma non è stata una passeggiata. Il maledetto virus ci ha privato di quella che è la principale funzione del bar: la socialità”. E così ci siamo abituati a una nuova normalità fatta di gel sanificante, termoscanner e distanziamento sociale. Di tavolini sempre più lontani, nuovi dehors e mascherine al posto dei sorrisi. “Qui le regole sono sempre state rispettate fino in fondo”, assicura Emrah con la voce rotta. E, a questo proposito, ricorda un episodio che gli ha strappato un sorriso. “Avevamo riaperto da poco. L’ordinanza regionale imponeva un metro di distanza al tavolo, anche tra i congiunti. Una sera arrivano due ragazzi ben vestiti: entrano mano nella mano, lei con una rosa in mano. Tutto faceva pensare a un appuntamento romantico. Abbiamo dovuto farli sedere alle estremità di due tavoli, a un metro e mezzo di distanza perché non abbiamo tavoli da un metro. Poi sono usciti, sempre mano nella mano. Una scena paradossale”, sorride.
Poi torna al presente. “Nell’ultimo mese la situazione è precipitata. Ogni settimana è uscito un nuovo Dpcm o un’ordinanza che hanno ristretto sempre più gli orari di apertura fino a questo lockdown light”. Restrizioni che sono state accolte in modo critico da molti colleghi. “Comprimendo le fasce orarie si ottiene l’effetto opposto, ovvero si concentra il flusso dei clienti nello stesso momento”. E sul provvedimento che imponeva il coprifuoco alle ore 23, in tanti si chiedono: “Che senso ha svuotare le strade di sera per poi lasciare alla mattina i mezzi pubblici pieni di gente?”.
Ora, a dispetto dello slogan della prima ondata, le cose non vanno bene. “La situazione non è rosea. Ogni volta che ce l’hanno chiesto, ci siamo messi in regola. Ma questi ultimi giorni di repentini cambiamenti e di decreti che si susseguono non ci permettono di programmare niente. Si sta scaricando la responsabilità su un settore che ha dovuto anche investire parecchi soldi per mettersi in regola”, osserva Emrah, che in questa fase continua la sua attività con l’asporto e le consegne a domicilio.
“La preoccupazione mia e dei colleghi è che la paura freni la gente dal frequentare i locali, lasciandoci così senza copertura e con le spese a pieno regime da sostenere”. Chiudere alla sera, come era scritto negli ultimi Dpcm, significa rinunciare a uno dei momenti più remunerativi della giornata: “Perdiamo fino al 30 per cento del fatturato”.
Eppure Emrah ci prova, rincorre quell’ottimismo garbato che l’ha sempre accompagnato in ogni fase della vita. Tra una frittura di falafel e un calice pieno di cubetti di ghiaccio e menta dispensa parole di speranza anche per gli altri colleghi ristoratori. “Teniamo duro. È un periodo decisamente stressante”, ammette. “Anche se devo dire che me la cavo abbastanza bene nell’incertezza. Prima o poi la tempesta finirà e allora sarà ancora più bello godersi quella tazza di thè al caldo, tutti insieme”.