Ci scrive questa lunga e appassionata lettera Victor Campagna, 31 anni. Victor si è laureato in Medicina all’Università degli Studi di Milano pochi mesi prima dello scoppio della pandemia e da quando è iniziata l’emergenza sanitaria è in prima linea, insieme a un gruppo di giovani camici bianchi in tutta Italia, per velocizzare l’ingresso di nuove forze nel sistema sanitario nazionale, in mezzo a tanta burocrazia “all’italiana” e a una politica sorda al loro appello.
In questa lettera ci spiega la situazione in cui si trovano i medici neolaureati e il problema del cosiddetto “imbuto formativo”, il limbo in cui si trovano Victor e i suoi colleghi che si affacciano al mondo del lavoro: è proprio lì, tra la fine del percorso universitario e l’inizio del lavoro nelle scuole di specializzazione, che la macchina della sanità si inceppa.
In queste settimane di emergenza sanitaria si parla di “carenza di medici”. In questa lettera, Victor ci spiega che in realtà i medici in Italia non mancano. Semplicemente, non vengono messi nelle condizioni di lavorare. Ecco perché.
“Ormai è passato un anno da quando mi sono laureato. Ricordo quel giorno in ogni sua parte: le scarpe scomode, l’abito, il fazzoletto sottomano per asciugare la tensione che mi si accumulava in fronte. Ricordo bene anche tutta la tensione del momento, fatta di pensieri assurdi (e se la presentazione Power Point non me la legge?).
Alla fine, per fortuna, tutto è andato come doveva andare. C’era tanta gente, tanti amici e amiche, alla mia laurea. Il salto della siepe, che data la mia agilità ho cercato di rendere il meno imbarazzante possibile, ha simboleggiato quel coronamento che tanto attendevo. È stato un giorno che da qui ai prossimi anni so che non si consumerà, so che sarà adeso alla mia memoria come un puntello e che scaverà radici profonde in me. Uno dei giorni più importanti della mia vita.
Poi ho fatto i tre mesi di tirocinio, il cosiddetto TPV (siamo molto affezionati agli acronimi noi medici, non ho ancora capito perché), il Tirocinio Pratico Valutativo, necessario per abilitarti alla professione medica. Sono stati tre mesi in cui ho imparato molto, ho costruito parte del medico che sono.
Ai tempi si parlava del coronavirus come una storia lontana, la solita patologia infettiva cinese che copre i giornali di un lontano allarmismo.
Poi, l’esplosione. A febbraio avrei dovuto sostenere lo scritto per completare la mia abilitazione, tuttavia era stato rinviato, a data da destinarsi, per l’emergenza sanitaria. Il fatto che sia stato rinviato mi ha fatto riflettere e, dopo un fortuito giro di chiamate, ho costruito un gruppo su Whatsapp nazionale in cui ci siamo adoperati per chiedere di essere abilitati subito, considerando solo il tirocinio che tutti avevamo completato. Tanti hanno deriso la nostra proposta. ‘Figuriamoci, il test è fondamentale, anche se lo passa il 99,8% dei candidati’. Soprattutto, devo dire, tra le fila del Partito Democratico partivano le irrisioni più devastanti. Eppure, dopo una lotta fatta di comunicati, mail, proteste, Gaetano Manfredi, il ministro dell’Università e della Ricerca, ha deciso di fare un copia-incolla della nostra proposta, ossia considerare il tirocinio pratico valutativo come sufficiente all’abilitazione, e se ne è attribuito il merito. Lui e il Partito Democratico. Ma poco importava: quel che conta è il risultato.
Da quest’esperienza è nato un piccolo gruppo di medici da tutta Italia, abbiamo deciso di chiamarci ER – Ex Rappresentanti in prima linea, perché molti di noi sono stati rappresentanti degli studenti durante gli anni universitari. Ci siamo quindi imbarcati in quello che da anni rappresenta il problema: l’imbuto formativo.
Per chi non lo sa, l’imbuto formativo è una strettoia che devono fronteggiare tutti i medici italiani dopo l’abilitazione. Per intenderci, nel 2019, a fronte di 8.776 posti nelle scuole di specializzazione, c’erano 18.776 candidati. Tradotto: 10mila medici sono rimasti fuori.
Ma perché un medico si deve specializzare? Perché è l’unico modo per noi medici di lavorare nel pubblico, ossia negli ospedali. È l’unico modo per fare parte del servizio sanitario nazionale.
Abbiamo costruito una proposta di riforma, basata su tre capisaldi: medicina territoriale, contratto di formazione, allargamento della rete formativa. La premessa necessaria, ovviamente, era togliere l’imbuto formativo e permettere a tutti di entrare nella formazione post laurea. Abbiamo portato avanti questa proposta con tante realtà diverse, abbiamo organizzato una manifestazione il 29 maggio, in ventuno piazze italiane, con una presenza massiccia di medici. Chiedevamo tutti una riforma, chiedevamo tutti di poterci specializzare. La stampa ha silenziato la notizia: non è uscita da nessuna parte, non è stata riportata da nessun quotidiano. È rimasta nel silenzio. E il ministro Manfredi ci ha promesso un tavolo di lavoro per la riforma, che non è mai partito. Ci ha preso in giro, essenzialmente.
Da quel 29 maggio è stato un concatenarsi di delusioni.
Noi denunciavamo che i posti stanziati, per quanto aumentati rispetto agli anni precedenti, non sarebbero bastati, perché avrebbero partecipato, secondo le nostre stime, dai 23mila ai 25mila candidati. Abbiamo parlato con tutto il parlamento. Gli unici a non averci mai risposto sono stati i parlamentari del Partito Democratico. Abbiamo ricevuto il sostegno di piccole e grandi realtà, ma da quello che sarebbe dovuto essere il punto di riferimento del riformismo e della sanità pubblica, non è arrivata nemmeno una risposta.
Alla fine, nel silenzio più assordante è venuto il test, il 22 settembre. Doveva essere il 23 luglio, ma l’emergenza ha comportato un bel ritardo.
Il governo ha avuto lunghi mesi di relativa calma per potersi preparare alla seconda ondata, ma dal punto di vista del servizio sanitario nazionale non ha fatto nulla. Il ministro della Salute, Roberto Speranza, ha più volte rivendicato l’assunzione di nuovo personale medico imminente. Il problema è che questo personale non c’è, perché mancano specialisti. Infatti, i bandi dei vari ospedali vanno tendenzialmente deserti. Quegli specialisti che mancano siamo noi, coloro che negli anni sono stati incatenati nell’imbuto formativo. E quest’anno c’era la fondata possibilità di risolvere questo imbuto: i soldi c’erano. Bastava un miliardo. Ma niente, non è stato fatto e il Partito Democratico in questo ha avuto un ruolo decisivo nel bocciare ogni proposta di risoluzione immediata, dicendo che al concorso saremmo stati poco meno di 20mila.
Alla fine, viene il giorno del test: 14.455 posti. I candidati? Non è stato dato il numero preciso fino all’ultimo. Probabilmente se ne vergognavano perché avevamo ragione: più di 25mila iscritti, di questi se ne sono presentati 23.756. 9.301 medici, in una pandemia, rimangono esclusi dagli ospedali italiani.
Una situazione a dir poco paradossale, con tutti gli ospedali in carenza di personale sanitario cronica. E ora siamo punto e a capo. Anzi, no, si è aggiunto il paradosso dei paradossi: degli studi legali hanno raccolto un numero non precisato di ricorsi. Non entro nei tecnicismi perché perderemmo il nucleo della situazione. Fatto sta che il 5 ottobre, a mezzogiorno, al posto della graduatoria e dell’apertura delle scelte, esce un comunicato: tutto viene rinviato al 26 ottobre.
Ho accolto questa notizia con sconcerto e rabbia, molta rabbia. Passano i giorni e arriviamo al fatidico 26 ottobre, in cui pubblicano una nota: vi daremo nuove notizie entro il 9 novembre. Altre due settimane così.
Ora siamo tutti bloccati nel limbo: molti di noi si dovranno trasferire per poter proseguire la propria formazione, dovremo fare delle scelte difficili, ma questo poco importa, rimane comunque tutto fermo.
Capirete bene che mi sale una rabbia indicibile quando si fa appello al nostro sacrificio da parte di quei partiti che avrebbero potuto rafforzare il nostro servizio sanitario nazionale, permettendo a tutti noi di specializzarci: hanno avuto tutto il tempo per affrontare con più risorse la seconda ondata, prevista da tutti gli esperti del settore. Ma non ci hanno voluto ascoltare. E ora stanno facendo ricadere sulla popolazione la piena responsabilità di una pandemia, quando noi avevamo dato una via per poter arricchire la rete ospedaliera in estrema sofferenza con 23.756 giovani medici.
E ora sono qui, a un anno dalla laurea. Ho rinunciato a molte possibilità lavorative per preparare quel test. Quindi, le mie giornate scorrono tutte uguali, nell’attesa. E intanto sento parlare del coronavirus, del disagio mentale che sta provocando in molte persone, del fatto che io, volendo fare lo psichiatra, mi sento totalmente impotente.
Potrei dare un contributo, ma mi è impedito. Ci è impedito. Per un governo che non ha nessun senso dell’investimento in prospettiva. Per una generazione, la nostra, dimenticata, insultata, distrutta da una retorica che ogni giorno fa sempre più schifo. Non solo per noi medici, ma anche per tutti noi che abbiamo la sfortuna di essere giovani, questo Paese è un nodo continuo alla gola, in cui la retorica dominante sposa la teoria per cui noi non ce la possiamo fare, perché non abbiamo abbastanza esperienza. Dobbiamo aspettare, studiare e aspettare.
Ecco, a dirla tutta sono stufo di aspettare: sarebbe ora che tutti noi, che siamo stati definiti negli anni choosy, viziati, irresponsabili e che ora siamo pure ritenuti gli untori della pandemia, ci uniamo nel dire che tutto questo non ci va bene.
Ci vuole una coscienza di generazione che interrompa la marea di ingiustizie che ogni giorno subiamo. Perché la verità è che noi siamo competenti, siamo bravi nel nostro lavoro, ma non ci viene riconosciuto nulla. Sarebbe ora che non solo noi medici, ma tutte le categorie professionali, dai giornalisti, fino agli operatori culturali, passando per gli insegnanti, gli psicologi e così via, si uniscano in un’unica voce e comincino a pretendere quanto ci spetta: rispetto della nostra formazione e professionalità.
Ora non so a cosa servirà questa lettera. So solo che è finito il tempo dei compromessi. Ci sto provando, con amici, colleghi, a cambiare le cose: ci siamo riusciti con l’abilitazione, ma non basta. Dobbiamo andare avanti, dobbiamo chiedere, pretendere e provarci con tutto il fiato che ci rimane.
Ricordandoci, ogni giorno, soprattutto in questi momenti di difficoltà, che noi siamo il futuro di questo Paese e che tocca a noi dire di no”.
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