“Il camper è la nostra casa. Vogliamo tornare in Italia: aiutateci”. L’appello viene dal Senegal e a lanciarlo è un gruppo di undici europei – per la maggior parte italiani – guidato da Walter Santini, comasco di 40 anni, giramondo e bracciante agricolo in Francia. Insieme a una decina di altri amici, provenienti da diverse parti d’Europa, a dicembre, si è messo in viaggio. Un convoglio di camper con l’obiettivo di attraversare l’Africa e fare anche del bene. Un viaggio di piacere – il sogno di arrivare in Guinea Bissau in tempo per il carnevale – ma anche una piccola missione umanitaria: portare dei doni ai bambini e organizzare, dove possibile, laboratori creativi lungo il percorso. L’emergenza del coronavirus li ha sorpresi lungo la strada e, da sette mesi, sono bloccati in Africa. Ora chiedono di ritornare, non in aereo, ma in camper. Perché non è solo il veicolo con cui si spostano e viaggiano in giro per il mondo, ma la loro casa. Andiamo con ordine.
Sono partiti a dicembre, in undici e tutti di un’età compresa tra i 25 e i 43 anni. Vengono da diverse parti d’Europa: Italia, Francia, Austria e Olanda. “Abbiamo formato un convoglio di sei camper con l’obiettivo comune di raggiungere la Guinea Bissau”, racconta Walter Santini. “Strada facendo abbiamo distribuito quaderni, colori, zaini, giochi e altri materiali per la scuola ai bambini partecipando al progetto ‘Colours for Africa’ dell’associazione ‘No borders tv'”.
E, durante il viaggio, “qualcuno si è aggiunto e altri hanno cambiato percorso”. Il 3 marzo però in Guinea Bissau scoppia il caos: nell’ex colonia portoghese, uno degli Stati più poveri del mondo, si consuma l’ennesimo colpo di Stato. Così il gruppo, nel pieno della pandemia da coronavirus, è costretto a rivedere i piani: rimasti in sette, con quattro camper, decidono di spostarsi nel vicino Senegal. E da qui non sono più ripartiti. “Siamo rimasti bloccati”.
Una soluzione, in realtà, c’è: salire su un aereo e abbandonare lì il camper. O caricarlo su una nave e spedirlo a Marsiglia. Ma per Santini questa non è un’opzione:”Il biglietto costa 4mila euro e non abbiamo certezze: molti voli vengono annullati e i rimborsi arrivano dopo diversi mesi. Rischiamo di rimanere qui senza più soldi per acquistare un altro volo. E, soprattutto, senza più il camper, che è la nostra casa e il nostro veicolo tutto l’anno: tornare a casa senza significherebbe non avere più una casa e tutto quello che contiene. E neanche un lavoro”.
Così, la scelta è stata obbligata. Hanno passato la quarantena a Cap Skirring, un luogo turistico sulla costa dell’oceano Atlantico, al confine con la Guinea Bissau. E, qui, hanno conosciuto altri sei italiani e due coppie di francesi. “Abbiamo subito avvertito l’ambasciata della nostra presenza, inviando nomi e targhe dei camper e abbiamo aspettato tre mesi. Certo, non possiamo dire di essercela passata male, eravamo nelle nostre case mobili. Ma subire le restrizioni e gli obblighi di questa pandemia in un Paese straniero non è stato certamente rilassante. Soprattutto all’inizio, i bianchi non venivano visti bene dalla popolazione locale. I bambini quando ci vedevano ci urlavano ‘coronavirus'”, ricorda Santini. “Adesso ci chiamano solo ‘bianchi'”.
In questi mesi il gruppo di europei racconta di essersi integrato ma, dopo tutto questo tempo, desiderano solo tornare a casa. “È la stagione delle piogge e il rischio malaria è piuttosto alto. Ogni tanto abbiamo qualche problema di salute: disguidi tropicali come i vermi nei piedi, dissenteria, ferite che non si rimarginano o uova nelle ferite”. E con loro c’è anche una donna incinta. L’umore? “Cerchiamo di stare allegri, anche se, dopo un po’, l’Africa stanca. E la prospettiva che qui la situazione dei contagi da coronavirus possa diventare come in Sud America, ci terrorizza”.
Per questo lanciano un appello all’ambasciata italiana: chiedono una via sicura per tornare in Europa con i loro camper. “Per l’inizio di agosto vorremmo qualche certezza in più della sola speranza di potere attraversare i confini senza intoppi. Non siamo riusciti a metterci in contatto con i consoli in Mauritania e in Marocco, per esempio. E qui fra uno stato e l’altro ci sono chilometri di nulla: c’è il rischio di rimanere intrappolati”. E sarà agosto nel deserto del Sahara. “Il problema più grande è la Mauritania, un paese di deserto, baracche e macchine scassate, come nel film ‘Mad Max'”. Da quaranta giorni “viviamo in uno stato d’animo altalenante fra speranza e disillusione. Cerchiamo notizie su internet che spesso non si rivelano veritiere”.
E così la loro speranza e il loro obiettivo è “tornare a casa per settembre, senza abbandonare niente e nessuno”. E per farlo hanno bisogno “che qualcuno parli con le autorità degli stati che dobbiamo attraversare chiedendo come e quando potremo farlo”.