Oggi vi proponiamo la lettera di Yuri, un educatore di Milano che durante il lockdown ha lavorato in prima linea in una struttura destinata alla quarantena di persone con disabilità.
“Mi chiamo Yuri e ho 35 anni, lavoro come educatore per cooperative sociali a Milano e dintorni. Mi occupo di disabilità e sopratutto di autismo. Quando è cominciata la pandemia ho cercato un modo per poter aiutare perché posso farlo, perché ho studiato per farlo e perché non farlo mi avrebbe fatto sentire probabilmente male. Quando puoi fare qualcosa per qualcuno o per la società, scegliere di non fare nulla è pur sempre una scelta e pesa, per quanto mi riguarda.
Oltre ad aver studiato Psicologia all’università, ho una formazione da operatore sanitario. Tutto questo, oltre alla mia esperienza con la disabilità, mi ha permesso di cominciare, da aprile, a lavorare in una struttura predisposta per l’emergenza Covid-19.
Lo scopo della struttura era quello di permettere la quarantena a persone disabili che hanno contratto il virus o che sono venute a contatto con casi positivi. L’ambiente era abbastanza grande da avere spazi adeguati e per poterli organizzarli in poco tempo secondo i protocolli e le esigenze degli ospiti. Abbiamo istituito una zona “rossa”, dedicata agli ospiti positivi al tampone, una zona “grigia”, per quelli che hanno avuto contatti con persone risultate positive al tampone o che presentavano una situazione clinica dubbia e, infine, una zona “verde”, per la vestizione degli operatori.
Fin da subito, la situazione è stata alienante. Un educatore che lavora con la mascherina e i guanti passa un messaggio di distanza e non accettazione dell’altro che stona con quella che è la mia missione: accogliere la persona nella sua interezza, facendo passare il messaggio importante che si può essere accettati anche così, qualsiasi sia la propria disabilità. Ma negli anni ho anche imparato che un educatore dovrebbe avere una “anarchica-mente” , che bisogna adeguarsi alle situazioni e trovare strumenti e punti di vista sempre nuovi per affrontare i problemi e i limiti che ogni situazione umana ci pone davanti. Perchè la “rivoluzione personale” è proprio questo, no?
Uscivo di casa solo per i bisogni di prima necessità e il lavoro. A volte, se facevo il turno di pomeriggio, tornavo a casa intorno alle 23, percorrendo strade che solitamente erano affollate. La polizia mi ha fermato per strada due volte. Quando mostravo il tesserino mi ringraziavano per il lavoro e facevano un passo indietro, probabilmente intimoriti dal fatto che potessi essere positivo.
È andato tutto bene fino a maggio. I casi nella struttura dove lavoravo erano limitati e non ne avevamo nessuno accertato, solo ospiti per la zona “grigia”. Le tute e i dispositivi di protezione individuali (Dpi) non erano tantissimi, ma riuscivamo a farceli bastare. Ci siamo arrangiati, nonostante fosse un disagio non da poco dover disinfettare qualcosa che di norma dovrebbe essere monouso. L’impossibilità o la difficoltà di procurare tutto il necessario per lavorare in sicurezza, il timore di contrarre un virus che ancora è un’incognita, il terrore di infettare i nostri cari: sono cose che ho vissuto in modo forte. Questa sensazione l’ho sentita addosso ancora di più di questo maledetto virus, che alla fine ho preso, dopo che sono state compiute “leggerezze” – se così possono essere chiamate – da parte di persone confuse e sopraffatte dalla burocrazia e dalla poca preparazione a questa situazione d’emergenza.
A fine maggio ho cominciato ad avere i sintomi dell’innominabile virus. Febbre, anosmia, perdita del gusto e fiacchezza. Una settimana dopo saturavo poco e sono stato portato via dall’ambulanza. Il mio medico di base non ha avuto molti dubbi a riguardo e mi ha fatto cominciare ufficialmente la quarantena: settimane di reclusione, solitudine e paura di aver toccato qualcuno, di aver contagiato mia sorella o uno sconosciuto al supermercato o i vicini che hanno bambini piccoli che, a volte, per sfuggire alla quarantena facevano un giretto sul pianerottolo.
Da quel giorno, anche per la cooperativa per cui stavo lavorando sono diventato un peso: è arrivata una telefonata da parte di un presidente che non avevo mai sentito, probabilmente per assicurarsi che non avrei fatto storie per aver contratto il virus. Credo che siano stati fatti degli errori. La cooperativa per la quale lavoravo non si è mai più fatta sentire. Qualche collega preoccupato mi ha chiesto come stavo, ma niente di più. Anche quando alla fine della mia quarantena ho dato le dimissioni, nessuno si è preoccupato di rispondermi. Mi hanno pagato il dovuto e tutto è finito lì.
A metà maggio è cambiato qualcosa: c’è stato l’ingresso di un nuovo ospite in struttura. Un ragazzo nello spettro autistico, che necessita di un rapporto operatore-utente stretto. Ci viene detto che il ragazzo, che chiamerò Mark (il nome è di fantasia), è sicuramente negativo al Covid-19 e che ha effettuato il tampone per accertare la situazione. Secondo il protocollo che ci è stato fornito, un nuovo ospite deve fare una quarantena preventiva di 15 giorni in una zona apposita per accertare la mancanza dei sintomi e l’eventuale isolamento nella zona adeguata (grigia nei “forse”, rossa nei “sicuramente positivi”).
Visto che la negatività di Mark era data per certa, non solo ci viene chiesto di non metterlo nella quarantena preventiva, ma ci viene anche detto che avrebbe dovuto stare al di fuori delle zone di isolamento e che quindi avrebbe dovuto vivere gli spazi che erano adibiti solo per gli operatori, senza entrare in contatto con infetti o spazi contaminati. Il nostro primo errore è stato non accertarci delle carte, non assicurarci di essere “in sicurezza”. Ed è stato un errore di chi ha gestito il coordinamento di questo luogo, che dovrebbe tutelare gli operatori e non metterli in pericolo.
Sicuri del fatto che Mark non avesse il Covid-19 abbiamo convissuto, nonostante alcuni di noi non fossero d’accordo con la decisione di tenerlo negli spazi non adibiti agli ospiti, per quasi due settimane a stretto contatto. I dispositivi di protezione individuale previsti per la situazione con lui consistevano solo nella mascherina. E le sue necessità non lasciavano comunque la possibilità di mantenere un distanziamento adeguato alla situazione di pandemia. Ciò nonostante eravamo abbastanza tranquilli, visti i risultati. E così è stato fino a quando Mark, due settimane dopo il suo ingresso, ha cominciato ad avere febbre e tosse. È stato portato in ospedale immediatamente e, con la stessa urgenza, gli è stato fatto un tampone, che è risultato positivo. Rientrato in struttura è stato isolato nella zona “rossa”. Seguendo il protocollo, ho segnalato all’Ats il mio contatto con un paziente positivo per un periodo prolungato e allo stesso modo hanno fatto i miei colleghi.
Il giorno dopo, ci viene riferito tramite mail dalla persona che coordina la struttura, che tutte le nostre segnalazioni sono state cancellate dal portale dell’Ats e che sarà responsabilità del medico del lavoro della cooperativa avvisare, in un secondo momento, del nostro contatto con un positivo.
Poco dopo salta fuori che Mark era sì risultato negativo al tampone, ma 20 giorni prima dell’ingresso nella nostra struttura e che, dal momento in cui aveva fatto quel test a quello in cui è arrivato da noi, non aveva più fatto alcun controllo e allo stesso modo non era stato in quarantena. Scoprire che ci era stata detta una bugia mi ha gettato nello sconforto. Ho provato a chiedermi perché fare una cosa del genere e le risposte che ho trovato non sono che frutto del mio pensiero, non ho certezze a riguardo. Ho pensato che l’ingresso di Mark fosse una questione economica.
Queste disattenzioni, il successivo disinteresse rispetto al mio stato di salute per tutta la durata della quarantena e questi pensieri rispetto a come sono andate le cose, mi hanno buttato in uno sconforto che ancora oggi mi grava addosso. Mi sento un numero, qualcosa di sacrificabile e non per un bene superiore quale l’aiutare l’altro, ma per quattro soldi in più in un periodo di crisi. Il coronavirus nel mio vissuto è stato doppiamente debilitante, fisicamente e socialmente. Mi ha lasciato segni fisici e una diffidenza evidente verso quello che dovrebbe essere un sistema atto a tutelarci e non a sfruttarci.
E mentre oggi esco di casa, per tornare al mio vecchio lavoro “pre-Covid”, vedo ancora qualche lenzuolo penzolante e ormai un po’ sporco, che riporta la scritta “andrà tutto bene”. E penso che quella sporcizia, su quel lenzuolo una volta bianco, è qualcosa che sento anche sulla mia storia. Possono essere state disattenzioni, può essere stata la poca professionalità o la decisione di scegliere il vantaggio economico rispetto alla sicurezza dei propri operatori, ma i segni li abbiamo addosso e lavarli non sarà una passeggiata”.
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