Ci sono circa otto chilometri tra Codogno e Pizzighettone. Otto chilometri immersi nel verde, lungo una strada provinciale costeggiata dai campi e intervallata da diverse rotonde. Pizzighettone è al confine con l’ex zona rossa e nonostante avesse registrato subito dopo Codogno dei casi di coronavirus, ne è fuori per pochissimi chilometri. Arrivando dalla provincia di Lodi, è uno dei primi comuni dell’area di competenza di Cremona.
A poche centinaia di metri dall’arrivo, il passaggio a livello è chiuso e il sole non perdona per i lunghissimi minuti in cui la sbarra è abbassata. Intanto le cicale friniscono e i gabbiani volteggiano sopra le nostre teste. Siamo all’ingresso di Gera, la frazione di Pizzighettone sulla sponda occidentale del lungo e tumultuoso fiume Adda, sulle cui rive dormono decine di anatre e oche, che cercano un cono d’ombra per ripararsi dalla calura estiva. Un paio di autunni fa, complici le piogge torrenziali, il fiume in piena, che trasportava un’isola di tronchi e rami, ha abbattuto il ponticello pedonale, con tutti i tubi dell’acqua e del gas delle case di Gera. Oggi gli stessi tubi corrono sul marciapiede del ponte in pietra, in attesa di una sistemazione definitiva.
Gli anziani siedono ai tavolini di un bar che guarda la strada d’accesso alla città. Intanto i ciclisti sfrecciano davanti a loro e attraversano il ponte. Parcheggiamo e li seguiamo a piedi.
Arrivate sull’altra sponda dell’Adda, nel centro della città, sulla sinistra si viene accolti dalla Torre del Guado. Uno dei pochi resti di quello che era il castello di Pizzighettone. E il ricordo della prigione di Francesco I, re di Francia, l’illustre ospite del paese, imprigionato qui ne 1525, dopo la sconfitta nella battaglia di Pavia. Si narra che il cuoco incaricato di preparagli i pasti, per compiacere il nobile e goloso palato, inventò un dolce. E questo, riadattato ai gusti moderni e ribattezzato “Pan del re”, continua a essere la punta di diamante della pasticceria Santi di Pizzighettone.
Il centro abitato, su entrambe le sponde, è circondato da mura. Mura con una storia antica, modificate e utilizzate per diversi scopi nel corso dei secoli. Sono state riscoperte, eliminando la vegetazione che se ne era impossessata, e restaurate negli anni dai Volontari delle Mura, un gruppo di pizzighettonesi che dagli anni Novanta cercano di tenere viva la memoria e di restaurarne i monumenti. Organizzano tour guidati o tematici per il paese, hanno allestito e gestiscono il museo dei mestieri e quello delle carceri. Ogni anno, nel periodo del ponte di Ognissanti, organizzano la sagra dei Fasulìn de l’öc cun le cùdeghe (fagiolini dall’occhio con cotenne), principale momento di raccolta fondi per finanziare il restauro del patrimonio storico della città. Il piatto, tipico di queste terre, viene preparato e servito dai volontari, durante la sagra, proprio all’interno delle mura, in stanzoni riscaldati con i camini a legna d’epoca.
“Speriamo che quest’anno, con l’emergenza Covid, non salti l’evento”. Proprio davanti alle antiche prigioni – una porzione di mura sul lato Nord del paese – ci raggiunge Gianfranco, un volontario, che stava facendo un giro, come noi. Ci propone di visitare la cappella carceraria. Dopo averci raccontato la storia ci mostra qualche altra particolarità delle fortificazioni e ci dice che stanno restaurando un nuovo punto delle mura. Poi torna a parlarci delle prigioni e della sua storia. Create dagli Austriaci nel 1785 come prime carceri per delinquenti comuni della Lombardia, sono diventate poi un carcere militare e infine una succursale della prigione milanese di San Vittore, fino alla definitiva chiusura, nel 1954.
Perché la storia dei carcerati di Pizzighettone non si ferma con Francesco I di Valois. Nel museo si possono visitare le anguste celle di punizione, con tanto di graffiti lasciati dagli occupanti di questi stanzini. Questo, durante il ventennio fascista, è stata una delle carceri militari più duri.
E dopo la guerra ha ospitato diversi criminali famosi alle cronache, come il bandito dell’Isola, Ezio Barbieri. O Luigino Rossetti, detto Lo Zoppo, altro celebre membro della ligéra milanese.
Il volontario ci indica le palazzine di fronte e ci spiega che per un periodo quello era diventato il riformatorio, quando le prigioni sono state chiuse. Centro di detenzione minorile che ha conosciuto tra i suoi “ospiti” un altro pezzo da novanta della mala milanese: Renato Vallanzasca, “il bel René”, che crescendo diventò poi il boss della Comasina.
Salutiamo il nostro Cicerone e decidiamo di fare una passeggiata. Costeggiamo le mura disegnando un cerchio, per poi tornare all’Adda. Da una delle numerose chiese sull’altra sponda ci arrivano le note dell’Ave Maria di Schubert, suonata con l’organo. Chissà se sarà la chiesa di San Pietro, con i suoi mosaici d’oro. Ci sono poche persone per strada, di più sulle panchine sotto agli alberi o ai tavoli dei bar, all’ombra dei tendoni.
Fa ancora caldo, ma ci rendiamo conto che è tardi per proseguire nel verde che costeggia il fiume o per andare al museo civico, che custodisce reperti di ogni epoca e vale una visita ogni volta che si entra in città. E così riattraversiamo l’Adda e ci sediamo ai tavolini di un bar di Gera. Con due birre ti portano i salumi del cremonese. Ci gustiamo il momento, mentre il sole, sempre più basso in cielo, illumina la superficie del fiume e dei cormorani volano in formazione sopra alle nostre teste.
Ripartiamo ed è quell’ora della giornata in cui i paesaggi cambiano i loro colori. Una venatura di nuvole macchia il cielo di bianco mentre il sole rosso, prima di scomparire, disegna le sagome degli alberi lungo l’orizzonte. Per un momento sembra un dipinto di un tramonto in Africa, mentre davanti a noi, lungo la strada, c’è solo una distesa di verde e giallo di cui non si vede la fine.
Mi è piaciuto molto l’articolo, panorama suggestivo di un paese dal passato interessante, chissà se la pandemia ha infierito sulle abitudini di vita degli abitanti?