Nelle piazze, nei bar che si animano e con le campane a festa. È la vita che ritorna, lenta e affabile come forse lo è sempre stata in questi paesi del Basso Lodigiano tra case colorate e strade a curve che disegnano, da qualsiasi angolo le si guardi, delle prospettive da cartolina. Intorno solo campi di mais e girasoli, sterrate battute dai ciclisti, cicale. Gli antichi rituali del caffè e delle chiacchiere da bar si consumano all’aperto in un placido pomeriggio d’inizio luglio. In giro ci sono quasi solo anziani e biciclette. Il sole taglia in due le strade strette in una morsa di calore che toglie il respiro. I pensionati sono tutti ai tavolini del bar. In coppia, da soli, eleganti, a piccoli gruppi: sono satelliti che comunicano, hanno imparato a farlo, a distanza. Siamo a Codogno, in provincia di Lodi, nel cuore dell’ex zona rossa d’Italia, primo focolaio del coronavirus. Uno dei dieci centri isolati dal governo il 23 febbraio e liberati l’8 marzo dai posti di blocco che filtravano entrate e uscite nei loro territori. Per due settimane il cordone rosso ha diviso 50 mila persone dal resto del Paese. Oggi le città blindate della Bassa provano a tornare alla normalità. Con lentezza e un vago senso di attesa.
Riaprono ristoranti, negozi, agenzie e luoghi di culto. Con nuovi arredi e modi inediti di abitare gli spazi, sempre più vuoti e necessari. Nella chiesa principale, dedicata a San Biagio – il martire che, ironia della sorte, protegge la gola e le vie respiratorie – il gel sanificante ha preso il posto dell’acqua santa. E così si torna anche a pregare, in solitaria, in un anonimo giovedì di luglio.
Fuori dalla chiesa si vince la solitudine nel modo più italiano che esiste: al bar. Ma manca qualcosa. Dov’è finito il calcio? Dove sono gli italiani tutti allenatori e fanta schemi? Chi si salva e chi la spunterà in questa inedita stagione estiva di serie A non è più chiacchiera da bar. Non qui. Nessuno si ricorda che domani, se non ci fosse stato il coronavirus, a questi tavolini si sarebbe tifato Italia abbracciandosi al primo gol magari di una finale contro l’eterna Germania.
Tra i tavolini del bar c’è un sosia di Ligabue, sbracato, che con la sua camicia a quadri e una spavalderia non comune da queste parti occupa due posti e cerca di parlare con tutti. Gli anziani si confidano: il coronavirus, il contagio, la paura, i racconti di quello che è stato. Poi ci sono le nuove preoccupazioni – gli esami in ospedale, le procedure che cambiano le routine anche delle visite ordinarie -. Quel maledetto virus resta il principale argomento di conversazione tra gli abitanti anche nei luoghi di svago.
La cassiera del bar non si vede mai in volto, separata dai clienti in fila dal plexiglass e da una visiera. Una cameriera innaffia un’aiuola, un giostraio lucida il trenino per i bambini, dove è consentito salire uno alla volta. Un giovane scarica gli scatoloni da una piccola auto e a ogni gesto spruzza il sanificante in un punto diverso perché non si sa mai.
Le tranquille vie del centro con la pavimentazione a ciottoli iniziano a colorarsi con gli spritz, le patatine e qualche giovane appena uscito dal lavoro. Intorno, spoglia, l’antica bellezza italiana è tutta per loro: le palazzine più o meno antiche con le loro tinte pastello e le persiane in legno, la tettoia del mercato in stile Liberty, una villa immersa in un parco. La fotografia del Gruppo Podistico ’82 di Codogno ci riporta al presente: sulle gigantografie in vetrina, lungo una via Vittorio Emanuele II semi deserta, campeggiano i successi di un gruppo di sportivi e appassionati con la divisa bianca e le scarpe fluorescenti. Tra questi c’è Mattia Maestri, il primo italiano a cui è stato diagnosticato il Covid-19: era il 21 febbraio. Da quel giorno, la vita a Codogno si è fermata.