Dalla stazione Centrale a corso Buenos Aires. E poi Monte Napoleone e Via della Spiga fino al quartiere arcobaleno di Porta Venezia. Il percorso è quello del Pride, ma oggi non ci sono carri multicolor e musica a tutto volume per le strade di Milano. C’è solo Carlo, con un kimono rainbow, la mascherina e un filo di barba che disegna il contorno del viso. Carlo Marchese sorride con gli occhi mentre abbraccia la città con il suo lungo strascico e il vuoto intorno a sé. Orfano della tradizionale parata – che l’anno scorso, in occasione del cinquantesimo anniversario dei moti di Stonewall, segnò il record di trecentomila partecipanti – ha scelto di sfilare lo stesso, da solo. “Sono un attivista. Voglio tenere viva l’attenzione sul tema della diversità e dei diritti”.
Una parata solitaria per le strade di Milano con un abito arcobaleno disegnato e confezionato da una docente dell’Accademia di Belle arti di Brera. Così ha scelto di omaggiare il Pride al tempo del coronavirus perché l’orgoglio, dice, non si ferma. “Sono gay. Ho passato vent’anni della mia vita a spiegare a me stesso chi fossi e ne ho impiegati altri venti per dirlo agli altri. In tutto questo tempo, ho imparato il valore della visibilità e della provocazione”. Con il tulle rosso, arancione, giallo e la mascherina dei sette colori, Carlo non passa certo inosservato per le vie del centro. “Il mio obiettivo non è travestirmi o essere una donna, ma rompere gli stereotipi”. Non solo per il Pride, ma nella quotidianità. “Quando vado a teatro con mio marito indosso spesso smoking e tacchi a spillo. Fino a qualche anno fa mi sarei vergognato, oggi no: ho imparato che nella vita bisogna esporsi”.
Quello di Carlo, che ora vive a Milano e si è sposato con il suo compagno di una vita, è stato un percorso lungo e a tratti doloroso. Nato e cresciuto a Catania negli anni ’80 quando “gli unici omosessuali di riferimento erano Elton John, George Michael e Boy George”. Pensava che l’unica alternativa per uscire allo scoperto fosse quella di diventare un personaggio famoso. “Perché è capitato proprio a me?”, si chiedeva. “I primi amori in adolescenza non li ho vissuti. L’idea di poter guardare per più di qualche secondo un ragazzo non ho potuto nemmeno sfiorarla”. Fino a 22 anni quando ha fatto coming out, prima con la sua migliore amica e poi con suo padre. In famiglia “non è stato facile, ma non è stata neanche una tragedia. Per mio padre sapere di avere un figlio gay è stato un dispiacere”, ricorda Carlo, che a 26 anni ha deciso di prendere in mano la sua vita e lasciare per sempre Catania. “Con il tempo però il rapporto con mio padre è stato meraviglioso: ha conosciuto quello che oggi è mio marito e alla fine voleva parlare più con lui che con me”, sorride ricordando quegli anni. “Bisogna lavorare, niente viene da sé: se fai una battaglia e prendi di petto le situazioni, non risolvi niente. Non voglio sfondare le porte, le voglio aprire: questa è la mia idea di attivismo”.
Un’idea maturata nel tempo e dopo un incontro speciale. “A Milano ho vissuto per dieci anni in una sorte di comune arcobaleno”. A gestirla era Loris, il titolare di una sito di incontri per omosessuali in un tempo in cui non esistevano smartphone e app. “Lavoravo nella sua redazione”, ricorda Carlo, che ora è impiegato in una multinazionale che distribuisce prodotti informatici, ma non dimentica quel periodo. “Loris ospitava persone in difficoltà, come me: trans, avvocati, dirigenti d’azienda, politici, pornostar. Ogni sabato sera a cena ci riunivamo: un appuntamento a cui nessuno poteva mancare. Vivevamo come in un film di Ferzan Ozpetek”. In questi anni “bellissimi”, Carlo matura la consapevolezza di dovere fare qualcosa per questa comunità. E diventa attivista.
Dalle sfilate in solitaria per le strade della città agli incontri e ai dibattiti pubblici. L’ultimo progetto a cui sta lavorando lo vede impegnato con la senatrice Monica Cirinnà, madrina della legge sulle unioni civili, che è appena stata appena nominata responsabile per i diritti del Pd.
“Bisogna mostrarsi per quel che si è, anche se si è da soli”, scrive su Facebook nel tragitto verso casa, non prima di scattarsi un ultimo selfie in metro con il suo kimono arcobaleno. “Quando vedevo i primi Pride in tv, a Catania, ne prendevo le distanze”, ricorda. “Mi dissociavo. Dicevo a me stesso: ‘Io non sono quella roba là’. Adesso sono esattamente l’opposto: sono passato da jeans e maglietta a trucco, parrucca e costume. Sono uno di quelli che forse viene guardato da qualcun altro e viene visto male anche da qualche gay. Ma la differenza è che ora ho capito qual è il senso del Pride: la visibilità”.
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