“Uno dei motivi che mi ha spinta a scrivere quelle righe, è il modo in cui la mia categoria professionale è stata trattata in questi mesi. Siamo stati, per un breve periodo, degli eroi. Poi siamo diventati gli untori, e alla fine siamo tornati nell’oblio”. Giulia Oriani, 30 anni, infermiera in un ospedale milanese e ha scritto un post su Facebook per raccontare la sua storia di cui abbiamo parlato nel nostro articolo precedente. Si è ammalata di Covid-19 all’inizio di marzo, superandolo senza, in apparenza, grandi problemi. Ma dopo una decina di giorni è iniziato il suo calvario.
La prima diagnosi è stata di trombosi venosa profonda. Dopo mesi di terapia, esami e vari consulti da diversi specialisti, si sono aggiunti altri problemi: tachicardia, “un disturbo post-traumatico da stress con insonnia, una vasculite post Covid-19”. Si esprime duramente contro complottisti e chi prende alla leggera il coronavirus. Per lei è importante mostrare loro se si sbagliano, anche se si rende conto che la disinformazione e le fake news sono diventati un’onda che è molto difficile arginare: “Le realtà dei social hanno sdoganato la regola del ‘posso dire quello che mi pare’, secondo la quale quindi chiunque si sente in diritto di scrivere anche cose false, arrivando all’aggressività se e quando dovesse essere contraddetto. Non credo sia un vortice da cui si possa uscire molto facilmente”.
Oriani, come mai ha deciso di scrivere questo post su Facebook?
“Perché mi capita spesso di avvertire la necessità di mettere per iscritto i miei pensieri e lo faccio tramite Facebook. In questo ultimo periodo sono stata arrabbiata. Molto e per vari motivi. Dopo aver discusso con una mia conoscente sulle fake news che circondano l’argomento coronavirus, ho cercato uno strumento per sfogare questa rabbia e la scrittura mi è sembrata il sistema più efficace. Raccontare la mia storia aveva come unico fine quello di testimoniare che tante cose che vengono dette non sono vere, sono frutto di menti che non conoscono nulla sull’argomento. Volevo dimostrare che non sono solo gli anziani che si ammalano, perché vedo i miei coetanei comportarsi come se fossero immuni, e non è così. Per questo ho ‘dedicato’ la mia testimonianza ai complottisti. Non certo con intenti maligni, come qualcuno ha sostenuto, ma semplicemente per dire ‘non è come vi raccontano. Non siete al sicuro'”.
Nient’altro?
“Un altro motivo di rabbia, e che mi ha spinta a scrivere quelle righe, è il modo in cui la mia categoria professionale è stata trattata in questi mesi. Siamo stati, per un breve periodo, degli eroi. Poi siamo diventati gli untori, e alla fine siamo tornati nell’oblio. Ecco, io ci tengo a dire che sono orgogliosa di essere un’infermiera, ma che non sono un eroina. Io faccio il mio lavoro, cercando di svolgerlo sempre al meglio, ed è un lavoro sempre pericoloso. Siamo esposti continuamente al rischio infettivo, non solo in questo periodo di Covid; facciamo turni stressanti e usuranti; siamo stati vittime di aggressioni e violenze. È vero, come qualcuno dice, che abbiamo scelto noi di fare gli infermieri, ma dovrebbe essere vero anche che i rischi e le fatiche a cui siamo esposti meritino un riconoscimento diverso, in termini sociali ed economici. Ad oggi siamo professionisti laureati, qualcuno ha anche più di una laurea, ma poco è cambiato nell’immaginario comune”.
Nell’ospedale dove lavora c’erano pazienti Covid?
“Il mio reparto inizialmente non ne aveva, poi progressivamente abbiamo iniziato a ricoverarne alcuni e l’ospedale ha rapidamente risposto alle direttive che arrivavano approntando quanto necessario per farci lavorare in sicurezza. Sicuramente, però, le notizie sempre più gravi che si diffondevano hanno spaventato noi operatori. La mia prima reazione è stata quella di minimizzare, forse per esorcizzare la paura. Ho cercato di contenere l’ansia di chi mi stava intorno, di trasmettere il messaggio che lavorando con attenzione sarebbe andato tutto bene. Ma in fondo non avevo idea di cosa aspettarmi. Ricordo che un giorno sono uscita dall’ospedale e ho mandato un messaggio su WhatsApp alla mia famiglia, dicendo loro di chiudersi in casa e che per un po’ non ci saremmo visti. Dopo una settimana, sono partiti i decreti che hanno portato al lockdown totale. Quello che percepivo era l’angoscia di non sapere cosa stessimo affrontando. Ci guardavamo all’uscita e ci domandavamo cosa ci stessimo portando a casa, quanto efficacemente fossimo stati in grado di proteggerci e quanto potessimo essere pericolosi”.
C’è qualcosa che l’ha colpita particolarmente di quel periodo?
“La solitudine che si respirava in reparto. Noi, bardati dalla testa ai piedi, eravamo in grado di comunicare molto poco, sia tra noi che con i pazienti. Loro, d’altra parte, erano soli nei loro letti, isolati dalle famiglie, alcuni all’interno dei caschi di ventilazione, che sono rumorosi e soffocanti. Se chiudo gli occhi, posso percepire ancora adesso la pesantezza che si avvertiva nell’aria. E non dimenticherò mai le lacrime dei pazienti quando riuscivamo a far fare loro le brevi videochiamate ai parenti: l’unico momento che li riportasse alla vita reale, alla vita ‘prima’”.
Quando si è ammalata?
“I primi giorni di marzo ho cominciato ad avere i primi sintomi: febbricola e tosse. Il tampone, risultato poi positivo, è stato eseguito il 10 marzo”.
Poi, quando il tampone è tornato negativo, è iniziato il vero calvario. Come sta ora?
“Sto meglio, finalmente. Ed è proprio per questo che ho avuto le forze di raccontare quello che mi è successo. Molti conoscenti mi hanno scritto stupiti, dicendo che non immaginavano che io fossi stata così male. Ma finché i problemi erano aperti, avevo altro a cui pensare che non fosse pubblicarli su internet. La trombosi si sta risolvendo con estrema lentezza, però sta finalmente andando nella giusta direzione. E la tachicardia è ben controllata dai betabloccanti. Gli indici infiammatori (che erano quelli che indicavano che la vasculite era ancora presente) si sono ridotti. L’ultimo punto su cui lavorare è il tono dell’umore, che è ancora molto altalenante. Ho attraversato giorni veramente bui, in cui non riuscivo a distogliere i pensieri dalla malattia e dalla morte e ho lavorato molto per spostare l’attenzione su qualcosa di positivo. L’angoscia torna purtroppo a farmi visita di notte, ma so che, prima o poi, anche questo problema si risolverà”.
Fra quanto tempo potrà tornare a lavorare? Ci sono cose che non potrà più fare?
“I primi di giugno tornerò in servizio. Non potrò stare ferma in piedi troppo a lungo, cosa che nella mia professione capita molto spesso. Per questo, cercherò di distribuire diversamente il lavoro, in modo da potermi muovere il più possibile. Spero di riuscire a sopportare soprattutto le notti, che sono lunghe e faticose. Nel caso in cui i prossimi controlli dovessero dare risultati peggiori, chiederò una riduzione temporanea dell’orario”.
Tornando al suo post di Facebook, lo dedica ai complottisti. Ne conosce?
“Sì, conosco direttamente alcune persone che credono alle teorie più assurde, oltre ad averne lette molte frequentando assiduamente i social. Le teorie sono tante e varie: vanno dalla creazione del virus in laboratorio in modo da sterminare parte della popolazione al microchip che verrà impiantato sottocute quando sarà somministrato il vaccino, così da poterci controllare tutti. Qualcuno sostiene che il virus non sia mai esistito e che si sia fatto dell’allarmismo inutile. Altri che colpisca solo le persone anziane o già malate. Altri ancora, purtroppo, hanno interpretato male le informazioni che sono state date in questo periodo (magari anche da fonti non ufficiali) e sono arrivati a sostenere che l’intubazione abbia ucciso i pazienti, che i dati sulle corrette terapie si sapevano da tempo e si è deciso di non seguirli per ‘sperimentare’ sulla pelle degli esseri umani. Insomma, che ci siano complotti inimmaginabili dietro. Ecco, per me è estremamente importante smentire tutte queste voci, anche in difesa dei miei colleghi e dei medici che hanno dato se stessi negli ultimi mesi, per salvare quante più vite possibile. Nessuno ha agito con intenzioni malvagie e i sanitari che purtroppo sono deceduti sono la prova che facciamo del nostro meglio, ma siamo anche noi esseri umani”.
Secondo lei, perché si stanno diffondendo tutte queste teorie anti scientifiche?
“A mio parere la diffusione di teorie antiscientifiche dipende dall’aumentata accessibilità a un determinato tipo di informazioni. Mi spiego meglio: quando trent’anni fa il medico diceva a mia madre che mi doveva far fare i vaccini, lei seguiva le indicazioni perché di medicina non ne sapeva niente, essendo laureata in lettere. Oggi, invece, si ha la possibilità di scrivere su Google “vaccini” e di leggere qualsiasi cosa. Ma chiunque non abbia un determinato background conoscitivo – per ignoranza generale o semplicemente perché ha seguito altri studi – può non essere in grado di discernere tra le fonti ufficiali e quelle non ufficiali o di comprendere appieno quello che legge, correndo il rischio di travisarne il contenuto e di arrivare addirittura a stravolgerlo. Nel mondo scientifico non ci si può ‘creare’ delle teorie, non si può reinterpretare qualcosa solo perché non si è in grado di capirlo. Certe cose sono così e come tali vanno accettate, a meno che non si sia in grado di confutarle rigorosamente”.
Che cosa si può fare per ridare fiducia nella scienza a questa gente?
“Temo purtroppo che non la riacquisteranno mai, perché il caos e la disinformazione hanno ormai superato ogni limite: le realtà dei social hanno sdoganato la regola del ‘posso dire quello che mi pare’, secondo la quale chiunque si sente in diritto di scrivere anche cose false e arrivando all’aggressività, se e quando dovesse essere contraddetto. Non credo che questo sia un vortice da cui si possa uscire molto facilmente”.
Alcuni, semplicemente, non osservano molto le regole. Se dovesse mandare loro un messaggio, cosa direbbe?
“Direi semplicemente di leggere la mia testimonianza, così come quella di tanti ammalati o di persone che hanno perso i loro cari, e di chiedersi: ‘E se succedesse a me?'”.
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