I bigliettini tra detenuti hanno portato una storia molto bella a Litchfield. La protagonista è una famiglia italo-sudafricana.
Qui in Italia, a fine febbraio, è scoppiato il primo focolaio di coronavirus a Codogno. Rapidamente la situazione si è aggravata e l’epidemia si è diffusa e le zone con il più alto tasso di contagi, come tutti sappiamo, sono state nel Nord Italia. “Molti dei nostri familiari e alcuni dei nostri amici più stretti vivono in una delle zone più colpite in Italia. Seguivamo i telegiornali per tenerci informati e abbiamo continuato a telefonare alla nostra famiglia quasi ogni giorno”, racconta Tracey Bertinotti, 35 anni. Tracey è una Jewellery designer e vive a Nelspruit, nella provincia di Mpumalanga, zona nordorientale del Sudafrica. Lì, oltre a disegnare e creare gioielli nel suo laboratorio, gestisce con i suoi genitori un bed and breakfast, il Mamma mia.
“Quando ci siamo resi conto di quanto le cose andassero male e che molti operatori sanitari erano sopraffatti e si ammalavano, anche a causa della mancanza di dispositivi di protezione individuale, sapevamo che, in caso di lockdown, dovevamo fare qualcosa per aiutare”. Lockdown che, in Sudafrica, è scattato a fine marzo.
“Sono andata sul sito web del Centro per la prevenzione e il controllo delle malattie e ho letto che le maschere di tipo medico dovevano essere riservate al personale in prima linea, ma che quelle di stoffa potevano comunque essere utili per il resto del personale ospedaliero”.
Tracey ha telefonato all’ospedale della zona, per controllare se ne avevano bisogno, “perché non ero sicura che le mascherine in tessuto sarebbero state utili”. Invece, “erano molto entusiasti e grati per l’offerta. E non vedevano l’ora di vedere le prime mascherine quando le abbiamo consegnate”.
Ed è così che è iniziato tutto. Tracey e i suoi genitori hanno creato “una piccola produzione, attiva di pomeriggio. Mio padre ritaglia il modello, mia madre attacca gli elastici e io mi occupo del cucito. Si può dire che è una ‘Bertinotti collaboration'”.
Hanno già confezionato 60 mascherine che hanno donato a un ospedale della zona. “Le prime che abbiamo fatto sono state realizzate con tessuti che avevamo a casa. In realtà la stoffa la avevamo da quando vivevamo in Mozambico. Si chiama “capilana” ed è usata dal popolo mozambicano per l’abbigliamento. È molto luminosa e colorata e abbiamo pensato che avrebbe dato un po’ di positività in un momento così difficile”, spiega.
L’ospedale ha poi fornito loro della biancheria sanetizzata per produrre altre mascherine. E, così, “abbiamo usato i tessuti colorati per la parte anteriore e il lino bianco igienizzato dell’ospedale per il retro delle mascherine”.
Lunedì ne consegneranno altre 60. Tracey vorrebbe fare di più “ma siamo solo in tre, con una sola macchina da cucire, ed è stato anche complicato reperire gli elastici, quindi abbiamo dovuto rallentare un po’ la produzione”. Ma questo progetto continuerà “finché ci sarà bisogno di mascherine”.
A volte uno si crede malato, e non lo è. Succede con i mali della…
“Cercavamo il modo di trasmettere la passione per l’arte a tutti i bambini". Così, durante…
"Mi chiamo Pasquale Poppa, come mio nonno, che a differenza mia era Cavaliere del lavoro…
"Il Covid ha causato un ribaltamento dei valori a cui tutti eravamo legati. Adesso siamo…
"Mia madre un po’ mi aiuta perché da brava insegnante dice di conoscere tutte le…
"Rompe una mamma Prof? Sì, molto. Perché tutti i santi giorni che separano dall’esame si…