Ci scrive Lorenza Miccolis, 30 anni, insegnante in una scuola media di Sesto San Giovanni:
“A me scrivere ha sempre fatto bene. È sempre stata una sorta di terapia, una medicina senza prescrizione, senza ricetta e senza controindicazioni. No, non è vero, una controindicazione la scrittura la ha: quella di esporti nuda, senza protezioni e senza anticorpi, davanti alla paura di affrontare quello per cui scrivi.
Ho imparato, in questi due mesi, che ancora una volta non conosco praticamente niente di me stessa. Pensavo di essere resistente, forte pur con le mie fragilità. Fiera, combattente, aggressiva. Mi sono riscoperta invece soggiogabile, atterrita dalla paura e di una ipocondria che neanche Woody Allen in ‘Harry a pezzi’.
Non ho capito bene cosa mi fa paura: credo più di tutto l’impossibilità di controllare quello che succede e prevedere cosa succederà. Immagino che un calzino entrato in lavatrice durante una centrifuga si senta esattamente come me in questo momento.
Ho affrontato questa quarantena come ho potuto. Mi sono tenuta impegnata, perché per tenere la mia mente relativamente lucida devo tenerla occupata in qualcosa, altrimenti neanche una zavorra di cemento da cinquecento chili potrebbe ancorarla a terra. E quindi sono diventata cuoca, donna delle pulizie, esperta di make up, rivoluzionatrice di armadi, fashion blogger, docente in didattica a distanza, accumulatrice di libri che chissà quando mai leggerò, barbiere a domicilio per Luca, il mio fidanzato, curiosa lettrice di mindfullness e pratiche orientali, navigatrice web in cerca di spesa con consegna a domicilio, estetista, misuratrice compulsiva di parametri vitali, studentessa di Macroeconomia spicciola e vaneggiamenti da non esperti su eventi epidemiologici.
La verità è che tutto questo poi finisce e rimani sola con te stessa e le tue paure, quelle da cui fuggi.
Ci sono giorni che non finiscono mai: giornate che durano mesi. I minuti durano una eternità e non è tanto la noia che ti prende, quanto l’angoscia. E cerchi di distrarti e metti una playlist con musica soft, che viene puntualmente interrotta dalle sirene delle autoambulanze (sempre meno, grazie al cielo) che ti ricordano il motivo per il quale invece di essere a scuola circondata da nanerottoli o ragazzini in piena fase ormonale, sei in casa con un PC davanti a cercare di buttare fuori il magone in gola.
Poi ti colleghi online con i ragazzi e li senti. Senti che anche loro sono spaventati, ma reagiscono diversamente: chi minimizza, chi vuole andare avanti con il programma, chi vuole fare lezione, chi pretende i compiti. Il punto in comune è che cercano disperatamente di ricostruire una loro normalità. E sono belli. Sono così piccoli, ma non ti sono sembrati mai così grandi.
Finisce la lezione e ti torna quel magone, in una di quelle giornate terribili e interminabili. Qui siamo in due io e Luca. Luca è un angelo: ha la lucidità e la razionalità che io avrei scommesso di avere fino a sei mesi fa e che adesso non ho idea di dove sia andata a finire. Ma ci sono quelle giornate in cui non ti basta. In cui ti sforzi di ignorare il pugno nello stomaco, ma se il sorriso te lo si cerca negli occhi e non sulle labbra, non te lo si trova.
E allora ti arrendi e tenti l’ultima spiaggia, quella che lasci come ultima possibilità quando ti accorgi che hai bisogno e che il pugno nello stomaco si è trasformato in un magone in gola. Chiami mamma e papà. Che loro già sanno che li chiamerai, aspettano quella telefonata che sanno che stai tardando a fare per non far percepire come ti senti. Ma figurati, loro lo sanno già dalla mattina come ti senti, appena leggono il primo ‘Buongiorno’ sul cellulare. Lo sentono a chilometri di distanza o nella stessa stanza, lo sentono se ti guardano in faccia dal vivo o se leggono una sequenza di lettere sullo schermo di un cellulare.
Ci sarà un chip, una spia, un gene, un qualcosa che rimane collegato tra un figlio e i genitori. Una cosa che non si vede, ma si sente. Sarebbe bello se, dopo questo casino e dopo aver combattuto tutte le malattie del mondo, gli scienziati potessero dedicarsi solo alla scoperta di questo legame impalpabile e indissolubile che esiste tra genitori e figli e che sfida ogni legge spazio-temporale. Una ricerca su una cosa che non si vede. Come un virus, ma questa volta puro e meraviglioso.
Videochiamata. Resisti qualche secondo, poi niente. A che serve fingere se tutti i partecipanti a una conversazione conoscono perfettamente il motivo della conversazione? Qualche minuto, poi passa. Che poi a me possono venire decine di esperti mondiali a illustrarmi le loro teorie sugli argomenti più diversi, ma se una cosa me la dicono mamma e papà, io mi convinco molto più facilmente.
E la giornata prosegue così. Ogni tanto ignori l’ansia, qualche minuto sbirci qualche video da internet, poi sblocchi il telefono, apri Facebook e la tua home è immaginariamente divisa in due: da una parte i post con una marea di stronzate e dall’altra i post che non fanno altro far pulsare il pugno allo stomaco. Allo basta, chiudi Facebook. Esci sulla veranda (santissima veranda, non sai quanto stai contribuendo a preservare la mia salute psicofisica), ti affacci e vedi il silenzio nel parco sotto casa tua.
Almeno oggi c’è il sole e non piove.
Va bene, basta, ho capito. Non posso più rimandare: adesso ho bisogno di scrivere.
Ed eccolo qui, lo spurgo dei miei pensieri. Senza filtri. Senza freni. Come l’ho rivissuto nella mia testa.
E non so se è un condizionamento psicologico, ma sto meglio. Forse un po’, forse a tratti, forse se mi chiedo se sto meglio, di nuovo, sento che non sto poi così tanto bene. Allora non me lo chiedo.
E scrivo. Perché mi aiuta, o credo che mi aiuti. Perché mi impegna il tempo. Perché poi mi rileggo a distanza di tempo e cerco di ritrovarmi tra le righe dei miei sproloqui passati.
E poi condivido. Perché mi fa sentire meno sola. Perché qualcuno può scoprire che anche a lui o a lei scrivere potrebbe aiutare. Perché c’è un lato positivo nei social. E credo sia questo”.
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