Ci scrive Stefano, 33 anni, che lavora in banca a Milano.
“La sveglia suona e il sole non è ancora sorto. Inizia una nuova giornata, come tante altre.
Da tre settimane il Paese è sospeso, c’è un’emergenza sanitaria in corso e quasi tutti sono in smart working. Io no. Sono un bancario (da non confondere con banchiere). Sono un “servizio essenziale”, e quindi vado al lavoro, come sempre.
Sono un pendolare sulla tratta Como-Milano. Sono solo. In stazione ci sono solo io, con la mia valigetta, la camicia e la cravatta ad aspettare il treno. Il sole che sorge dalle montagne illumina di rosso i sampietrini della banchina: sarà questo l’unico momento della giornata che mi strappa un sorriso.
In televisione, alla radio, sui giornali si moltiplicano gli appelli a restare a casa per tutelare la salute di tutti. Restano aperti ospedali, farmacie, alcune aziende, i supermercati e la triade: banche, poste e assicurazioni.
Il mio lavoro è considerato essenziale. Sembra che la mia salute e quella di migliaia di colleghi non valgano la sottoscrizione o la vendita di un fondo di investimento.
Arrivo a Milano: passo accanto a un posto di blocco. Nel taschino tengo sempre a portata di mano un’autocertificazione, che dice che devo muovermi “per comprovate esigenze lavorative”. Ogni giorno, da quando è iniziata l’emergenza, mi chiedo quale sia “la comprovata esigenza” di muovere fondi d’investimento in questo momento. Intanto passa l’auto dei vigili che con il megafono invita tutti a “restare a casa”. Ma io sono considerato un “servizio essenziale” e quindi continuo a camminare.
Arrivo in banca. Nel mio ufficio, i miei colleghi e io proviamo a mantenere le distanze di sicurezza. Si riducono al minimo i contatti, ci si telefona dallo stesso ufficio, da una scrivania all’altra. Si pranza da soli, ognuno chiuso nel suo stanzino. C’è paura, ovunque. Nelle nostre poche conversazioni è sempre presente l’idea che a breve potrebbe toccare a te, o a un tuo familiare, magari anziano, magari con patologie pregresse.
Nessuno, a casa, capisce perché io debba continuare ad andare in ufficio.
Ora, la banca ha deciso che si può lavorare da casa, ma a turni. Il mio non è ancora arrivato. E così, eccomi qui fianco a fianco a lavorare con i pochi colleghi rimasti, sempre con un chiodo fisso in testa: “Chissà se anche oggi riuscirò a evitare il contagio, chissà se qualcuno di noi è già positivo e ancora non lo sa e ci stiamo infettando tutti”.
Mentre lavoro, mentre sposto titoli da una banca all’altra, un pezzo di testa è sempre lì, a quella possibilità, sempre meno remota e sempre più concreta, di essere contagiato. O di contagiare. Una paura che non mi lascia mai, neanche la notte. Una paura che si fa terrore quando per caso ti sale un banale colpo di tosse.
Il lavoro va avanti così, in quasi isolamento, nell’attesa che venga il mio turno e per qualche giorno possa lavorare da casa e mettere la salute, la mia e quella della mia famiglia, davvero al primo posto.
La sera torno a casa. Di nuovo il treno, l’autocertificazione, il posto di blocco. Un’altra giornata è passata, si spera senza conseguenze.
Da oggi lavoro da casa: è il mio turno, finalmente. Ma, chiuso nella mia stanza davanti al computer, non posso non pensare che altri colleghi oggi dovranno rientrare in ufficio, per mansioni che si potrebbero svolgere serenamente da casa.
In un Paese normale, nessuno si sognerebbe di dire che la volontà di tutelare la nostra salute sia mancanza di “voglia di lavorare”. Il nostro è un settore di cui si parla solo per le truffe e i crack, dimenticando le migliaia di persone che, come me, ogni giorno si alzano e vanno in ufficio, mentre attorno i mezzi di polizia ripetono a gran voce l’imperativo: “State a casa”.
Sono Stefano, sono una di quelle migliaia di persone che nessuno guarda e di cui pochi si interessano. Svolgo un “servizio essenziale” nell’indifferenza generale, sperando che questo servizio non costi troppo”.
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L'ha ripubblicato su Appunti di un Vecchio Agnosticoe ha commentato:
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