Giorno 5 – Da che punto guardi l’esilio, tutto dipende

Dipende. 

Da che punto guardi il mondo, tutto dipende. 

Lui era Jarabe del Palo, 1998. Io avevo 11 anni e quell’anno persi una delle persone più importanti della mia vita: mio nonno. Mio nonno Giovanni, che è sempre tornato da tutte le guerre, ma io, da quella mattina, non l’ho più visto. Lui mi ha insegnato a disegnare gli alberi, a giocare a carte e a vincere. Sempre. Anche quando il mondo ti dice che hai perso. Senza di lui, la mia casa, per molto tempo, è rimasta vuota. 

Quello stesso giorno se ne volò via anche la mia nonna Gianna con i suoi scialli di lana e i succhi di pera in bottigliette di vetro. Fu un brutto febbraio. “Uno schifo”, avrebbe detto quella bambina con la frangetta corta e i denti a coniglio prima che un adulto le ricordasse che “schifo” non si dice.

Febbraio, nella mia vita, non è stato mai più lo stesso. Ancora oggi lo temo. Lo temo come una tempesta che sai che sta arrivando, ma non sai esattamente cosa porterà. E come ne uscirai, una volta che l’hai attraversata. 

Ma, crescendo, ho capito: febbraio è solo un’idea. L’idea, o l’illusione, che la paura si possa contenere, che abbia dei confini. Febbraio è una scatola, che si apre in un giorno e si chiude dopo ventotto, ventinove. Dentro, delle volte, ci trovo una storia brutta, ma, come ogni storia, so che ha un inizio e, soprattutto, ha una fine. Una scatola fa meno paura: a fine mese posso chiuderla e, per il resto dell’anno, dimenticarmi di lei.

Febbraio, quest’anno, mi ha riportata a casa, dal Messico. Ma poi mi ha rinchiuso dentro casa. Dentro a una vita che, almeno in parte, avevo scelto di cambiare. Ero finalmente pronta. Pronta e determinata come non lo ero mai stata negli ultimi tre, quattro anni. Pronta a mordere quel poco che restava dell’inverno e a rinascere nel momento perfetto: la primavera. Il che significava, nel piano della mia nuova vita immaginata: trovare un lavoro, riabbracciare gli amici e magari rimettermi un po’ in forma.

Non è successo niente di tutto questo. Senza tornare alla normalità, da un giorno all’altro mi sono ritrovata dentro a una serie tv che non avevo scelto. 

Da oggi ho deciso di non tenere più il conto dei giorni, ma delle canzoni. Quelle che sento dalla finestra, quelle che canto sul balcone, quelle che fanno vibrare questi muri bianchi su cui, ogni tanto, la sera spacco la testa per cercare di dare un senso a tante cose che non capisco. 

Chiusa nella mia stanza, oggi, ho riguardato quel video. 

Il bel Jarabe davanti a un lenzuolo bianco con un pennello in mano, tutto sporco di vernice. “Depende”, scriveva. Con quell’aria frivola e leggiadra, metteva in dubbio certezze elementari: che il mondo sia bianco o nero, che uno e uno siano due. Anche lui intrappolato dentro a un monolocale, risolveva tutto con un pennello e un sorriso. È la storia di lui, di lei, e di una casa che dopo due strofe si riempie di gente. A un certo punto arriva pure un’oca. E alla fine c’è un intero condominio dentro a quel buco. Finisce così: che nessuno si sente più solo.

E allora dipende. 

Da che punto guardi questo esilio, tutto dipende. 

Chi non ha un lavoro, se lo inventa. Chi è rimasto senza fiori, li raccoglie nel giardino di casa. Chi deve tornare, trova la strada più lunga, ma alla fine ce la fa. 

Orange is the new Milano

D’un tratto mi accorgo che intorno a me c’è molta più vita di quanto avessi mai avuto il modo, o il tempo, di osservare. Allora ho preso un lenzuolo, e, come Jarabe, ho iniziato a dipingere, e a sporcarmi. Ho scritto “orange”. La mia parola è “arancione” come il colore che ha dato un confine alla mia nuova vita immaginata. 

Il lenzuolo ora è diventato un blog, un progetto, la mia primavera. Si chiama “Orange is the new Milano – Due giornaliste disoccupate nella prigione del Covid-19“. L’altra è mia moglie.

Ci siamo noi, ci sono le nostre e le vostre storie, c’è una comunità che gira intorno e che, ora che abbiamo occhi calmi per guardare, vogliamo raccontare.

Vedi, nonno, avevi ragione tu. Anche questa volta non ho perso.

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