Questa mattina mi sono svegliata e fuori dalla mia finestra ho visto l’arcobaleno. È rimasto lì per tutto il giorno. C’era scritto: “Andrà tutto bene”.
Chi l’ha disegnato? Voglio scoprirlo. Così decido di trascorrere la giornata sul mio piccolo balcone.
Io, a differenza di James Steward nel film “La finestra sul cortile”, non ho una gamba ingessata. E neanche un giardino. Ma, dopo giorni e giorni chiusa in casa, mi convinco che devo pure passare il tempo, in qualche modo. E così, prendo la mia sedia rossa e come Jeff mi apposto sul balcone. Un metro per due, al quarto piano: discreto, ottima visuale. Con un binocolo da scout sembra di stare su un palco della Scala.
Dedico gran parte della giornata al mio ozio preferito: guardare. Del resto, come diceva l’infermiera nel capolavoro di Hitchcock “siamo diventati una razza di guardoni”. Solo che adesso spiamo la gente sui social, mentre a quei tempi – erano gli anni ’50 – il vicino di casa diventava un amico di famiglia, quasi un parente acquisito. Oggi, invece, dei miei vicini conosco a malapena il cognome, anche se è scritto sul citofono.
Da quassù mi accorgo di quante cose sono cambiate dall’estate scorsa. Il palazzo di fronte cade a pezzi. Alloggi popolari. Tanti appartamenti vuoti da anni. E intanto giù in strada i senzatetto si trascinano per la città fantasma: qui uno di loro, ieri, è stato denunciato per aver violato il decreto coronavirus. Non è rimasto a casa. Succede pure questo, in questi giorni anomali.
Ormai il rumore dei clacson è solo un ricordo lontano. Il rombo dei motori ha lasciato il posto al canto degli uccelli, alla primavera. Sembra di essere in aperta campagna più che a venti minuti dal Duomo. “Una meraviglia”, dico io. “Un incubo”, sbuffa mia moglie, che è milanese e a tutto questo silenzio non è abituata. La rende irrequieta, elettrica. Dice che senza i rumori del traffico non dorme bene.
Di giorno, invece, accende la radio, poi lo stereo. E si mette a suonare. Suoniamo chitarra, pianoforte e basso: concerti senza pubblico. Da quando è scoppiato il coronavirus qui ogni giorno è Capodanno. Ma i vicini già si chiedono quando finirà il countdown.
Poi c’è il vuoto. E quello sì, fa paura in città. Nei momenti di silenzio assoluto quasi rimpiango il dirimpettaio con la musica da discoteca e i suoi balli a petto nudo. Se n’è andato un mese fa, lasciando in pace i timpani del vicinato. Per fortuna però, ora, c’è il martello del vicino che appende un quadro. Dopo una settimana a casa, non sa stare con le mani in mano e mi fa sentire meno sola.
Tutti, in qualche modo, si fanno notare più del solito. L’uomo misterioso che non si fa mai vedere, stamattina ha steso i panni per colore: su una fila i gialli, poi neri, bianchi e blu. Deduco che c’è e che sta bene. Poco più in là un gatto fa l’equilibrista sul cornicione, e così scopro che nessuno litiga più da quella finestra.
All’ultimo piano hanno chiuso tutto, finalmente. Per un anno, ogni mattina ho bevuto il caffè guardando la tenda oscillare nel vento: quell’appartamento abbandonato da un giorno all’altro e mai chiuso ha scatenato nella mia testa i peggiori incubi. Chissà se per l’estate arriverà un nuovo vicino.
Dal deposito dell’Atm intanto esce la 90. I milanesi la chiamano la “sposta-poveri”. E in fondo è così il bus che gira tutta Milano, giorno e notte. Ma ora che non si esce a ballare, a bere, a divertirsi, nessuno si addormenta più su quei vecchi sedili arancioni.
Il ponteggio del palazzo a fianco è senza vita, e tutta questa assenza inizia a fare un po’ paura. Gli operai non si vedono più da settimane. Non si vede più neanche la coppia della tv: starà bene? Scendo a citofonare. Lui e lei, pensionati senza nipoti, ma con una passione sfrenata per i programmi televisivi. Mi salutano dal citofono e mi dicono che chissà quanto dovranno aspettare ancora per tornare a fare il pubblico alle Iene. Lui, in questi giorni di esilio, vivrà del ricordo del bacio di Belén Rodríguez. Sulla guancia.
Tutti chiusi in casa. A parte lui, il ragazzo del secondo piano. Organizza concerti, ma ora sono tutti cancellati. Da recluso, prende il sole sul balcone. In attesa che tutto passi.
Il telefono suona. Gli amici iniziano a soffrire la solitudine e la monotonia di questi giorni tutti uguali. Come in una relazione a distanza, riscopro le videochiamate. E nell’euforia della nuova vita da casalingo c’è persino chi mi propone una giocata di Dungeons & Dragons via Zoom.
Alle 19 tutte le finestre dei palazzi di fronte sono accese: nessuno è in palestra, a fare l’aperitivo o a seguire qualche corso di cucina molecolare. Sono tutti a casa a preparare la cena, la tv accesa, il fumo di sigaretta che esce da qualche finestra. Stiamo riscoprendo, senza volerlo, una vita domestica a cui non eravamo più abituati. E chissà se questo tempo lento potrà aiutare a ricucire anche qualche relazione.
È buio e inizia a fare freddo. Torno in casa e scopro che mia moglie è già ai fornelli. Sta cucinando il ragù. Il ragù? In questa casa non si è mai visto. Tre ore di cottura: chi ha mai avuto tutto questo tempo?
Intanto le chat di WhatsApp si ravvivano e girano immagini di Snoopy con il cuscino in mano che dice “io resto a casa perché non capita tutti i giorni di salvare l’Italia rimanendo in pigiama”.
Gli amici ci scrivono anche da Madrid: ogni giorno vogliono sapere cosa sta succedendo e cosa li aspetta. E così facciamo un video dal balcone alle strade deserte da mandare a Patricia. Anche in Spagna aumentano i casi di contagio. La gente inizia a perdere la testa. Patricia ci racconta che ieri la ex della sua ragazza “chiama Noe e le dice: ‘Mia mamma ha il coronavirus. Posso venire a vivere a casa tua?’”.
L’arcobaleno è ancora lì. Scopro che l’hanno dipinto i bambini del secondo piano. Ci sono volute una finestra e un terrazzo per stendere tutto quel lungo lenzuolo. Le “balconiadi” sono diventate la nuova disciplina di questa città: Milano si sta riempendo di striscioni come questi. Chiudo la finestra. E so che fino a quando resterò a casa “andrà tutto bene”.
Questo articolo è stato pubblicato su Huffington Post