Sono tornata a Milano il 20 febbraio, il giorno prima che arrivasse la notizia dei primi contagi. Da quel giorno non ho più trovato la città che avevo lasciato. Il coronavirus è tra noi. E noi non siamo più gli stessi.
Per la seconda volta dopo la vittoria di Giuliano Pisapia, Milano è stata travolta da un’ondata arancione. Quel colore, che aveva riempito le piazze di giovani festanti con bandiere e palloncini, che era il simbolo della riscossa, oggi ha alzato un confine. La zona arancione ci ha messo tutti dentro. Da quel giorno è iniziata la mia vita sospesa.
Ora, per la prima volta dopo tanti anni, nella mia testa c’è di nuovo un confine che non posso superare. Transenne, check point, divieti. I milanesi non lo sanno, non l’hanno mai vissuto. Ma chi, come me, è nato sulla frontiera tra l’Italia e la Svizzera, sa bene che la libertà nel gioco delle nostre vite ha sempre avuto una linea di demarcazione.
Per me, cresciuta con i racconti degli spalloni – epopee di notti di luna piena con sacchi in spalla, di finanzieri nemici sui sentieri segreti, di carichi di caffè, sigarette, soldi e cioccolata – il valico è sempre stato ingegno e poesia. Non oggi.
Oggi il rischio è troppo alto. Contrabbandare il virus, mettere a rischio la vita delle persone è una delle gesta memorabili e vigliacche che nessuno vorrebbe raccontare. E così non si entra e non si esce.
In questi giorni di silenzio e di vuoto, ripenso spesso alla mia infanzia. A quel confine che vedevo più grande di me quando papà mi portava a fare benzina in Svizzera. Era il mio viaggio esotico del weekend. Quei controlli ossessivi alla dogana – “Documenti? Motivo della visita? Qualcosa da dichiarare?” – erano il prezzo da pagare per la migliore cioccolata sulla faccia della terra. Ora sono i miei genitori a stare dall’altra parte del confine: loro a Como, io a Milano.
Le nostre vite ce le raccontiamo al telefono e via email. Mamma non si dà pace perché non può andare a messa e le tocca seguirla in tv. Papà, più preoccupato per il cibo e insofferente per tutta quella invasione di litanie e rosari, approfitta di ogni sua singola distrazione per cambiare canale. Poi mi chiamano, uno per volta: “E a Milano, come va?”.
Ormai non trovo alcuna differenza tra la vita che facevo a Rebbio, il mio piccolo quartiere tra galline e villette, e la metropoli da più di un milione di anime dove vivo ora. Sparite, come per magia. La Milano degli aperitivi si è trasformata nella città delle gelaterie, le uniche aperte dopo le 18.
In Galleria Vittorio Emanuele il toro più famoso e calpestato d’Italia è rimasto solo. E io con lui. In uno dei pochi bar ancora aperti spunta un gruppo di camerieri: in una giornata nel posto più turistico di Milano hanno fatto un solo caffè. Come loro anche i vicini. Mi raccontano che Carlo Cracco si è persino messo sulla porta del suo ristorante per attirare i clienti. Ma in giro non c’è neanche un cane.
In periferia, dove abito, invece, i cani del quartiere non sono mai stati così felici: escono mattina, pomeriggio e sera. Un labrador si è persino sdraiato in mezzo alla strada: uno spasso, il suo padrone non va più di fretta.
Sono quasi le 18, fra poco scatta il coprifuoco, e mi accorgo che il frigo è quasi vuoto. Provo a scendere nella pizzeria sotto casa. “Lo fate l’asporto?”. Nessuno lo sa. Torno a casa senza pizza, ma con i loro i nomi, e un po’ delle loro vite, in testa.
Loris e Marina: sorelle, una ventina d’anni, figlie di egiziani. Simpatiche. “Piacere, Elisabetta”. Niente strette di mano, niente baci. Tutto a un metro e mezzo di distanza, come da decreto. A cadere però sono state altre distanze, quelle che per tutti questi anni, da quando frequento la pizzeria, ci relegavano nei nostri rispettivi ruoli: le cameriere e la cliente fissa che ordina sempre una pizza fuori menu.
È buio. Decido di tornare a casa, non prima di fare un salto in libreria. Mentre vago tra gli scaffali, entra una ragazza con la mascherina in testa che spunta come un fez. “Cerco un saggio sui formaggi”. I commessi si guardano da lontano. Perplessi. L’unica cliente della giornata ha scelto di farsi ricordare. “Un saggio scientifico sui formaggi”, scandisce a voce più alta.
Sul volto dei commessi si stampa il rimpianto di non avere chiuso, come il calzolaio a fianco, che è in ferie da due settimane. O il ristorante di sushi che riaprirà, secondo il cartello, tra tre giorni. O forse no. Anche il “piatto tipico di Milano” non fattura più.
Questo articolo è stato pubblicato su Huffington Post